domenica 29 marzo 2020

la nuova normalità

Lunedì scorso è finito lo spring break e siamo entrati in una fase inedita, quella che tutti con grande nonchalance qui chiamano, the new normal, la nuova normalitàIo preferirei andarci piano con certe etichette, ma non ho molta scelta purtroppo.
I primi due giorni di insegnamento online sono stati piuttosto deliranti. Mille comunicazioni, mille cose nuove da imparare però non abbiamo perso nemmeno un giorno. Il servizio scolastico è andato avanti secondo il calendario previsto e questo mi rende molto orgogliosa di fare parte di questo gruppo di lavoro. E' incredibilmente complicato far quadrare tutto. Questo non è il lavoro che abbiamo accettato di fare o che siamo preparati a fare, ma ci stiamo provando con entusiasmo e stiamo facendo del nostro meglio. Se non altro siamo lí disponibili tutti i giorni per i nostri studenti, gli garantiamo continuità e un vago senso di sicurezza e non è poco di questi tempi.
La bibliotecaria della scuola è stata la prima davvero a capire quello che sarebbe successo e ad attivarsi. C'era solo un giorno a disposizione dopo la proclamazione dello stato di emergenza nazionale e non c'era stata ancora nessuna comunicazione ufficiale riguardo alla chiusura della scuola, ma quell'ultimo giorno la bibliotecaria ha permesso ai bambini di prendere in prestito praticamente tutti i libri che volevano. Ha detto: "Qualche libro andrà perso, ma è meglio sapere che i libri sono nelle mani di un bambino a casa che a fare la muffa in una scuola vuota". Applausi. Infatti, insieme alle scuole hanno chiuso subito anche tutte le biblioteche. Anch'io sono preoccupata in questo senso. Insegno arte e non posso dare niente per scontato. Chi lo sa se a casa tutti hanno le matite, i pennarelli, la colla, le forbici. C'è una mamma che mi ha scritto che ha preparato tutto un programma da fare a casa per la figlia e voleva dei consigli perchè ha inserito il Museo del Novecento di Milano in mio onore, ma non ne sa moltissimo. Ho delle famiglie di questo tipo e altre che fanno molta, molta, più fatica.
Le famiglie che non hanno un computer o una connessione internet l'altro giorno sono andate a ritirarli a scuola. Un po' come al fast food, con la segretaria che passava computer e chiavette hotspot dalla finestrella. Appena l'ho saputo, mi sono precipitata a portare anche pastelli a cera e tubetti di colla. Ho pensato che forse chi non ha un computer o una connessione è più probabile che non abbia neanche questi materiali altrettanto importanti per dei bambini chiusi in casa per tanto tempo.
Devo dire che da un lato questa situazione stimola la creatività. Mi trovo a dover pensare a lezioni che possano essere fatte con qualunque materiale il bambino abbia a disposizione e possibilmente in completa indipendenza. Mi stanno venendo delle buone idee, credo. Sto cercando di creare dei contenuti che siano fatti su misura per i miei studenti visto che per il resto su You Tube si trova di tutto.
Resta il fatto, però che quel giorno, quando sono tornata nella scuola deserta e poi nella mia classe e ho trovato tutto esattamente come lo avevamo lasciato un paio di settimane prima, ho avuto un (piccolo) crollo emotivo. Mi sono tornati in mente i banali gesti quotidiani che avevamo fatto anche quell'ultimo giorno, come sempre, senza riflettere sul fatto che non saremmo più tornati per chissà quanto tempo. La giacchetta dimenticata, il disegno lasciato a metà. Siccome sono una persona solare e ottimista, mi è venuto in mente Pompei, il tempo che si cristallizza nella tragedia. Per fortuna non c'è stata ancora nessuna tragedia, ma abbiamo questa spada di Damocle che pende sulle nostre teste.
A volte mi chiedo che vita è questa.  
Ogni giorno, sono previsti trenta minuti in cui accendo Zoom e sono a disposizione dei bambini. Pensavo che sarebbero venuti a farmi vedere i loro disegni o a parlare delle solite cose nostre di arte e invece no, vogliono solo vedermi, raccontarmi quello che gli succede, ma soprattutto vedermi. Alcuni stranamente non parlano nemmeno e io mi imbarazzo e comincio a raccontare qualunque cosa mi venga in mente per riempire i vuoti. Alcuni hanno uno sguardo così triste. E poi dopo mi mandano i disegni, le letterine, I love you, I miss you. Accidenti quanto mi mancano. Se c'è una cosa che mi fa venire le lacrime agli occhi è pensare a loro. Non insegno in una di quelle scuole di frontiera che si vedono nei film, non mi sono dovuta mettere il giubbotto di pelle per farmi prendere sul serio, anzi la mia è una scuola bene attrezzata in una zona relativamente benestante, ma per tanti bambini, per motivi diversi, la scuola rimane il posto in cui si sentono più al sicuro. Di fatto loro adesso sono soli. Chi ha dei genitori responsabili ed equilibrati (è fin troppo facile perdere l'equilibrio ora chiusi in casa, con tanti posti di lavoro che saltano ogni giorno) avrà un trauma probabilmente gestibile, ma chi non ha questa fortuna rimarrà segnato, è così. Mi scrivono anche tanti genitori, mamme soprattutto. Forse hanno bisogno di conforto anche loro, hanno bisogno di sentirsi dire che stanno facendo tutto bene e che non devono preoccuparsi della scuola e io glielo dico volentieri. Siamo tutti sulla stessa barca, a fare le acrobazie fra compiti, lavoro e piatti da lavare. I risultati accademici in questo momento particolare sono l'ultima delle preoccupazioni. Prima avevi il tempo di concentrarti sulle cose, adesso è multitasking allo stato puro. Nel mio caso, Joe sembra reagire bene, ma Woody è fragile, non c'è l'asilo online per lui, non può chattare con i suoi amici, e così ha perso tutti i punti di riferimento. Prima era il bambino che ti rimprovera quando vai a prenderlo in anticipo e non fa in tempo a finire un gioco, ora invece se mi perde di vista un attimo o se gli rispondo che sono occupata, gli vengono gli occhi lucidi.
Un paio di giorni fa è scattata una fase un po' più seria della quarantena, quella dello shelter in place. A me fa impressione questa cosa perchè shelter in place è una frase che qui in Texas ho sentito solo durante le tempeste, quelle che sono abbastanza violente da potersi trasformare in tornado. Scatta la sirena e tutti sanno perfettamente dove andare: shelter in place! Significa che bisogna raggiungere subito il posto più interno della casa, di solito un bagno o un armadio, sedersi lì, magari con un cuscino o un casco in testa, e aspettare che passi. Nella mia esperienza shelter in place è una cosa che fa paura, ma dura pochissimo, una mezz'ora o molto meno. So che non sarà la stessa cosa, ma non ci posso fare niente, l'idea che lo shelter in place durerà settimane o mesi, mi atterrisce.
In realtà tutto mi atterrisce ultimamente. Ho paura per tutto e per tutti, non mi sono mai sentita così.
Mi scervello cercando un significato profondo per tutto questo perchè deve esserci un significato. Tutti dicono che dopo questa esperienza apprezzeremo di più quello che abbiamo. Ecco, io ci ho pensato bene, molto bene, e vi assicuro che apprezzavo tutto anche prima. Correvo troppo sì, ma correvo per non perdere nulla perché amavo la mia vita e tutte le persone che ne fanno parte, non per guadagnare o per superare qualcun altro. Trasferirti all'estero ti insegna a non dare mai un minuto per scontato. Quando tornavo in Italia facevo i tour de force per passare più tempo possibile con tutti perchè già sentivo questa sensazione di cui parlano tutti ora, la forza di uno sguardo, di un abbraccio. Già sapevo cosa significava vivere senza tutto questo. Scusate, ma la teoria che alla fine ti tocca ringraziare la tegola che ti è caduta in testa, non fa per me.
Continuerò a pensarci perchè voglio comunque trovare un significato, so che mi aiuterà e sono convinta che ci sia da qualche parte in mezzo a tutta questa sofferenza. Anche se i pensieri non sono chiari e limpidi come una volta in questo periodo. Ho due sottofondi costanti: le voci dei miei bimbi e le mie preoccupazioni, non mi sento me stessa fino in fondo. Ringrazio il cielo di essere circondata (si fa per dire) da persone che si sentono come me. Possiamo parlare e capirci benissimo e poi ridere di noi stessi, delle nostre paure. Non ho mai riso e pianto tanto con i miei amici come in questo periodo. Queste due cose, il riso e il pianto, sono le mie uniche armi in questa nuova normalità. Ah, e la condivisione.   

sabato 21 marzo 2020

there's still another game to play

Una volta, almeno tre o quattro anni fa, parlavo con una mia amica che ha due bambine più o meno dell'età di Joe e Woody di come si fa a insegnare ai figli il senso di riconoscenza.
Era passato da poco Natale e mi aveva infastidito vedere i giocattoli nuovi messi subito in un angolo per desiderare qualcos'altro. Come si fa a fargli capire che non tutti i bambini sono così fortunati, che dovrebbero ringraziare più spesso e soprattutto apprezzare quello che hanno invece di tendere sempre verso quello che non hanno e che nemmeno gli serve? 
Come genitore, e anche come insegnante devo dire, una delle cose che ti preoccupano di più, è che i tuoi figli o studenti diventino delle persone per bene, ma come glielo insegni?
La mia amica mi disse una cosa che non ho mai dimenticato e che mi è tornata in mente in questi giorni. Mi disse che lei ci andava molto piano con questi discorsi con le sue figlie. Non voleva rattristarle, voleva che vivessero l'illusione di quella loro infanzia spensierata e sicura il più a lungo possibile.
Mi disse: "Sai, nella vita a volte c'è un momento, e può succedere anche all'improvviso, in cui scopri la sofferenza, tua e quella degli altri, e l'infanzia finisce". 
La sua era finita con la guerra. Lei è nata in una di quelle repubbliche che nessuno sa trovare sulla mappa, quelle che finiscono per -Stan e che facevano parte dell'Unione Sovietica. Quando scoppiò la guerra civile da un momento all'altro lei e la sua famiglia dovettero lasciare tutto e tutti per fuggire in Israele. Quella fu la fine della sua infanzia. In un secondo passò da una vita simile a quella delle sue figlie alla persecuzione, alla paura, alla solitudine. E anche dopo, quando le cose piano piano si sistemarono, l'infanzia, intesa come fiducia nel prossimo, serenità e senso di sicurezza, chiaramente non tornò mai più. 
A volte mi chiedo se la tragedia del coronavirus sarà la fine dell'infanzia dei miei figli. Poi li guardo -tutti e due- e vedo che stanno bene, sorridono. Per ora stanno prendendo tutto come un gioco. 
Ho capito che la fine della loro infanzia adesso dipende quasi interamente da me. Io sono al centro della loro vita ancora più di prima. Se sarò in grado di sorridere, di mantenere la calma e di continuare a giocare -ma sul serio, non per finta, altrimenti se ne accorgono e non serve a niente- loro rimarranno bambini. Se mi farò prendere dallo sconforto, li trascinerò con me.
Noi genitori in questo momento, con tutte le nostre ansie e i nostri nervosismi -con le dovute proporzioni, ci mancherebbe- ci sentiamo spesso come il personaggio di Benigni ne La Vita è Bella. 
Tutti i miei dubbi, il mio sarcasmo e la mia angoscia li terrò in caldo per i meravigliosi adulti che fanno parte della mia vita e spero che loro faranno lo stesso con me. Per i bambini, sia Joe e Woody che i miei piccoli studenti appena comincerò a insegnare online, solo un sorriso testardo e rassicurante a dispetto di tutto.

Smile, without a reason why
Love, as if you were a child
Smile, no matter what they tell you
Don't listen to a word they say
'Cause life is beautiful that way
Tears, a tidal-wave of tears
Light that slowly disappears
Wait, before you close the curtain
There's still another game to play
And life is beautiful that way
Here, in his eyes forever more
I will always be as close as you remember from before.
Now, that you're out there on your own
Remember, what is real and what we dream is love alone.
Keep the laughter in your eyes
Soon, your long awaited prize
Well forget about our sorrow
And think about a brighter day
'Cause life is beautiful that way

martedì 17 marzo 2020

like a war

Mi chiedete spesso che si dice qui dell'Italia.
Oggi il The Daily, il podcast giornaliero del New York Times, ha dedicato all'Italia l'intera puntata. L'episodio si intitola "It's like a war" ed è l'intervista a un medico di Bergamo. Mi ha completamente devastato, forse non avrei dovuto ascoltarlo. Magari certe informazioni grossomodo già ce le hai anche, ma sentire un medico spiegare al New York Times in tutta normalità che lui e i suoi colleghi sono disperati e piangono tutti i giorni, è pazzesco.
È come guardare uno tsunami che si avvicina prima ai tuoi cari e poi a te e tu sei lì paralizzato perché non sai da che parte andare.

mille volte nella stessa giornata

Oggi sono dovuta andare in palestra a disdire l'abbonamento. Il bosco era più o meno di strada e così mi sono concessa una passeggiata visto che oltre ai soliti problemi è prevista anche una settimana di pioggia qui in Texas. Le scuole e tanti uffici pubblici sono chiusi, ma sia dal veterinario stamattina che in palestra e al parco questo pomeriggio tutto sembrava normalissimo. Mentre tornavo a casa, ho acceso la radio e ho sentito le ultime di Trump.
E' da mesi che tutti dicono e ripetono che la sua forza e il suo peso elettorale risiedono e dipendono esclusivamente dal successo dell'economia, quindi mi ha fatto impressione sentirlo ammettere non solo che sì, è probabile che ci sarà una recessione ma anche che questa quarantena durerà fino a luglio o agosto. Ieri le indicazioni erano di evitare assembramenti di più di 50 persone, oggi lui parlava di non più di 10 e se uno in casa si ammala, devono essere messi in quarantena tutti quelli che vivono con quella persona.
Vi capita mai di avere nostalgia per i problemi di prima?
Che bello quando mi preoccupavo perchè non ero riuscita a prendere l'appuntamento dalla parrucchiera o mi arrabbiavo perchè la Ragazzina mi rubava il cibo dal piatto.
Adesso sono andata decisamente oltre. Adesso guardo con nostalgia ai problemi dell'inizio del covid-19. Quanto ho sofferto al pensiero di dover rinunciare a tornare in Italia a giugno. Prima invece ho sentito questa previsione di quarantena fino a luglio-agosto con 40 gradi all'ombra e l'unica cosa che ho pensato è stata: va bene, va bene tutto pur di rimanere sani.
In uno strano modo si diventa più forti.
#celasifa e #noncelasifa mille volte nella stessa giornata.

lunedì 16 marzo 2020

lunedi

Alle 4 del mattino avevo già gli occhi sbarrati pensando di dover portare Bubu dal veterinario. Ansia per il possibile contagio+ ansia per la diagnosi. Bingo.
Era da un po' che avevo notato dei cambiamenti, ma sta bene, mangia, non sembra soffra, e sapendo che non potrebbe sopportare un'anestesia, preferivo non indagare oltre. Adesso però il gioco si fa duro con la quarantena, qualunque cosa sia, è meglio affrontarla prima che tutto sia ancora più difficile. Non so se a un certo punto chiuderanno anche le cliniche veterinarie. Si brancola nel buio.
Sono andata prestissimo, appena hanno aperto, sperando di incontrare meno gente possibile.
Il traffico era normale, la segretaria era normale, il veterinario pure. Le salviette disinfettanti e il gel per le mani ci sono sempre stati. Non ho notato assolutamente nessuna precauzione speciale contro il COVID-19.
Ho fatto incetta di medicine per i miei due vecchietti e la diagnosi non è stata nefasta come immaginavo. Bubu ha vari acciacchi come sempre e ora anche un'ernia che non credo sia operabile, ma sono sollevata.
C'è la possibilità che continui così e non si ingrandisca. Avevo paura che fosse una di quelle situazioni senza via di scampo. Mi aggrappo a questa speranza per quello che dal primo giorno abbiamo soprannominato il 'cane perfetto'. Ha sempre tenuto fede al suo soprannome, dovreste conoscerlo, è un beagle che non abbaia, non aggiungo altro.
Ci sono tante di quelle cose da considerare in questo momento, cose a cui non avevo minimamente pensato. E' un effetto domino che ci coinvolge tutti profondamente, proprio come lo ha visualizzato quel genio di Christoph Niemann sulla nuova copertina del New Yorker.

domenica 15 marzo 2020

il #celasifachallenge


Siamo in autoisolamento da meno di 48 ore. Abbiamo già fatto una partita infinita a Monopoli, disegnato, chiamato, videochiamato, inventato giochi di prestigio, guardato film, cucinato, costruito fortezze di coperte e anche fatto una partitella a palla perché siamo fortunatissimi e abbiamo il giardino. Non ci siamo annoiati, questo no, ma - è innegabile- il tempo sembra scorrere più lento del solito e non so davvero cosa ci inventeremo per passare giorni, settimane o chissà perfino mesi reclusi in questo modo. In questa situazione disperata vorrei lanciare un #celasifachallenge : bisogna trovare ogni giorno una piccola gioia, anche piccolissima.
Inauguro la mia sfida con qualcosa che mi ha davvero sollevato il morale oggi. Forse avrete sentito che qui, il primo oggetto a sparire dagli scaffali dei supermercati è stata la carta igienica. Mr J prima ancora che succedesse, ha avuto un colpo di genio: ordinare una tavoletta con bidet incorporato prima di tutti, ora pare siano già 
introvabili. E quindi la piccola, in realtà grande gioia di oggi, è questa. Anche perché, parliamoci chiaro, quando ti trasferisci negli#usa ti mancano tante cose dell'Italia, ma la mancanza del bidet è una di quelle cose a cui davvero non ti abitui mai. Chissà domani che sorprese ci riserverà.

🚽🧻
#coronatexas

Se volete partecipare semplicemente pubblicate il vostro post su Instagram con hashtag #celasifachallenge 🦠💪❤️

sabato 14 marzo 2020

cose così

Questo pomeriggio c'è la festa di compleanno di un grandissimo amichetto di Woody. Noi fin dall'inizio avevamo gentilmente rifiutato l'invito pensando che saremmo stati fuori città. Quando abbiamo deciso di non partire, ho pensato comunque di non partecipare alla festa per motivi di sicurezza. Visto che conosco abbastanza bene la madre del bambino e che ho visto quanto gli americani stiano facendo fatica ad accettare questo concetto di 'social isolation' (in realtà qui se ne sta parlando da un paio di giorni) che in Italia invece sembra essere passato molto bene a questo punto, mi sono chiesta se avessi dovuto spiegarle perchè non andavamo alla festa oppure no.
Un paio di persone sagge mi avevano consigliato di lasciar perdere che è una di quelle situazioni in cui non si cambia opinione: se uno è già d'accordo con te ti dà ragione, altrimenti si offende.
Caso vuole che incontri la madre proprio subito dopo aver guardato i video degli italiani che cantano dalle finestre.
Con le lacrime agli occhi, senza nemmeno ponderare, le dico che non voglio dirle cosa fare, ma che secondo me una festa di compleanno ora è a alto rischio di contagio e le spiego i motivi.
(Le feste dei bambini sono sempre a rischio purtroppo. A gennaio siamo stati a una festa in cui c'era un bambino con l'influenza e nel giro di due settimane, se la sono presa tutti, genitori compresi, sono cose che capitano, è normale in tempi normali).
Lei che mi sembra una persona buona e intelligente, non si è offesa per niente, anzi mi ha ringraziato, però non ha considerato il mio consiglio nemmeno per un secondo.
- Ti capisco, però è il suo compleanno, abbiamo organizzato da tanto tempo. Staremo attenti, ma la festa si fa.
Cose così.

ora siamo tutti lontani

Il primo giorno di quarantena non è ancora finito e ho già fatto due lunghe video chiamate con amici che sento (a voce) praticamente solo quando torno in Italia.
E' vero, è una situazione tremenda peró in un certo senso, vi confesso che mi sento meno sola.
Non credo di essere l'unica, expat o no, ad avere questa sensazione.
Lo so che non succederà, ma sarebbe davvero bello se riuscissimo a trovare il tempo di sentirci di più a voce o in video anche quando tutto questo sarà alle spalle.
Me lo ha detto anche una mia amica che è chiusa in casa a Milano: ora capisco come ti senti, ora siamo tutti lontani.

venerdì 13 marzo 2020

è ufficiale

E adesso, miei cari, la mia normalità è davvero finita.
Anche la famiglia Johnson è ufficialmente in autoisolamento volontario. Saremmo dovuti partire domani, ma abbiamo cancellato tutto e senza rimpianti. Ce ne staremo a casa.
Good thing we like each other, dice Mr. J.
Marikondiamo la casa, dico io in uno slancio di entusiasmo.
Vi racconterò poi con calma le misure che stiamo prendendo qui e tutte le novità di una situazione in continua evoluzione, ora non riesco. Ho appena visto il video del trombettista di Milano e ho gli occhi offuscati dalle lacrime.
Quanta bellezza che c'è in giro anche in questi momenti, concentriamoci solo su questo.
Adesso e anche dopo quando sarà tutto finito.
Continuo a ripetermi come sempre che #celasifa
Mi piace molto di più di #andratuttobene perchè implica una lotta, una sfida da affrontare, non una fiducia cieca.
Lottiamo tutti insieme allora che #celasifa
❤️

martedì 10 marzo 2020

come si sente cassandra

Ho cercato di parlare del coronavirus con alcune persone che si dicevano preoccupate in questi giorni. Ho spiegato cosa sta succedendo in Italia e, nonostante avessero chiesto loro, hanno subito fatto qualunque cosa per cambiare argomento. Perfino i miei alunni a scuola.
Possiamo cambiare argomento? Mi ha chiesto in maniera molto diretta la bambina che per prima mi aveva chiesto conferma che si trattasse solo di un raffreddore come le aveva detto la sua mamma.
Accidenti.
Adesso so come si sente Cassandra da tutta la vita.

sabato 7 marzo 2020

il quando e il se

Sabato mattina. Palestra, supermercato, solite cose. Poi capito davanti ai saponi e gli scaffali sono semi vuoti. C'è un cartello di avviso alla clientela. Niente disinfettante per le mani. Zero. So che in Italia è da un po' che è così, ma per me qui è la prima volta e mi ha fatto impressione. Apparentemente tutto è normale e la vita scorre come sempre, ma l'ansia cresce. Un presidente che contraddicendo ogni parere informato, minimizza e invita la popolazione a recarsi pure al lavoro con dei sintomi che tanto non c'è problema, non aiuta.
Non so come dirvi.
La situazione italiana è drammatica (o almeno io da qui, nonostante tutte le vostre fantastiche rassicurazioni la percepisco così), ma io dall'esterno almeno, percepisco anche una buona fede di fondo degli amministratori, una volontà di mettere la salute al primo posto, qui per adesso no.
Non mi ero mai resa conto di quante volte durante la giornata pensassi cose tipo "quando andrò in Italia quest'estate farò questo o quello, quando vedrò questa o quell'altra persona quest'estate...".
Tornare in Italia una volta l'anno è una di quelle cose che danno senso a tante altre cose.
Ora al posto del "quando" c'è solo un "se" a cui quasi non voglio pensare per non illudermi.

giovedì 5 marzo 2020

il gatto transgender

Stavamo parlando di William Wegman, quel fotografo che usa i bracchi di Weimar per creare dei ritratti che sono decisamente umani. Era la classe dei più grandi quindi il discorso si è fatto abbastanza profondo. Gli animali ci mostrano la nostra stessa umanità, è una delle riflessioni che sono venute fuori.
Poi una ragazzina alza la mano e mi dice:
- Il mio gatto è transgender.
Nessuno ride, non ci posso credere. Che salto rispetto alla classe della ragazzina che voleva che tutti i gay morissero dell'altra volta. Molto bene. Le rispondo:
- Anche in questo caso vediamo che gli esseri umani non sono così speciali. Ma dimmi: perché pensi che il tuo gatto sia transgender?
- Perché risponde solo a nomi femminili.
- Ricordati che quella non è la sua lingua, ma la nostra.
- No, ma è davvero transgender perché è un maschio, ma gli piacciono i vestiti rosa, e solo quelli molto costosi.
Io dentro 🤦🏻‍♀️
Però. In inglese questi si chiamano "teachable moments", non mi viene in mente un sinonimo italiano. Comunque, da qui si può partire per imparare qualcosa di nuovo. Dal rancore dell'altra ragazzina che odia i gay invece non era uscito niente di positivo.
Anche se devo dire che dopo quell'esperienza (da cui sono uscita con il dubbio atroce che odiasse anche me), si è iscritta al mio club di arte pomeridiano. Forse tutto quell'odio era solo un riflesso condizionato e il dubbio comincia a insinuarsi anche in questa giovane mente.
Lo spero tanto.

lunedì 2 marzo 2020

è giusto provare

Molti di voi hanno notato - e per questo vi ringrazio- che in questo periodo i miei post scarseggiano, eppure più che mai avrei tantissimo da scrivere e da raccontarvi.
E' che a un certo punto la vita ha davvero avuto la meglio sulla scrittura.
Il salto fra la piccolissima scuola privata nel quartiere più ricco della città in cui lavoravo prima e la grande scuola pubblica dei suburbi (ricchi per di più, figuriamoci quelli poveri...) in cui lavoro ora è stato enorme e carico di conseguenze.
In questi mesi ho visto tante situazioni preoccupanti e ne ho scritto spesso anche qui. A un certo punto ho cominciato a farmi una domanda: non posso essere l'unica a vedere queste cose. Perchè nessuno dice niente?
E così piano piano, man mano che i successi lavorativi si accumulavano e mi davano una sorta di moneta da spendere in termini di rispetto e sicurezza, con molto tatto, ho cominciato a parlare di questi piccoli e grandi tabù sia con i miei superiori che con alcuni colleghi, solo quelli che mi hanno fatto intravedere una qualche sensibilità a riguardo. Tutti mi hanno dato ragione. Ho avuto la conferma che a tutti succedono le cose che succedono a me e tutti sono più o meno preoccupati.
Il discorso che sto cercando di portare avanti adesso va oltre. Voglio convincerli che tutto questo non è ineluttabile, che ci sono azioni che possiamo intraprendere per arginare i danni, quelli enormi creati dalle famiglie, dalla società e qualche volta, dalla scuola stessa. Come educatori, non possiamo accontentarci di rispondere alle situazioni negative: dobbiamo fare il possibile per prevenirle. 
Quando ho chiesto di elaborare un qualche piano di azione per fare in modo che la nostra scuola diventi una sorta di esempio in questo senso e ho proposto diverse idee, solo un paio di insegnanti mi hanno seguito. Adesso stiamo lavorando insieme su vari fronti e sono abbastanza ottimista perchè ho fiducia anche negli altri e sono sicura che pian piano il gruppo si allargherà. Dopo tutto sono appena arrivata, ci vuole tempo.
In questo momento il dubbio più grande che mi hanno comunicato quelli che non vogliono partecipare è legato alla politica. Tanti insegnanti hanno paura che parlare troppo di discriminazione e razzismo venga visto come un gesto politico e susciti le ire o anche solo il fastidio dei conservatori che si trovino fra i genitori o eventualmente nello staff stesso della scuola. Qualcuno se la prenderà certo, ma c'è sempre qualcuno che se la prende, no? Non importa, si va avanti. Ci sono anche tantissimi che non aspettano altro e me lo fanno sapere ogni volta che ce n'è l'occasione. Non credo che la politica c'entri tanto in questo caso, è una questione di civiltà, di rispetto reciproco. Credo che il vero problema sia culturale e sia dovuto al fatto che certe conversazioni qui, per tanto tanto tempo e ancora oggi in parte, sono state considerate sconvenienti.
Mi riferisco alla questione del razzismo endemico, ma non solo. Un'insegnante l'altro giorno mi diceva che un genitore ha protestato perchè si è spiegato come funzionano le carte di credito. Penso che la scuola abbia il diritto/dovere di andare avanti per la sua strada e semplicemente educare e formare dei buoni cittadini.
Ultimamente sono impegnata su tanti fronti. 
Sono in contatto con alcuni insegnanti che hanno già messo a punto piani come quello che aspiro a creare io qui. C'è una grande artista internazionale che si occupa di razzismo da tanti anni che si è offerta di parlare direttamente con i miei studenti. Un altro progetto riguarda il fatto che ho scoperto che la maggior parte dei miei studenti, ad esempio, non va nei musei. La notizia non mi ha sorpreso, ma mi ha allarmato e ho deciso di agire. Abbiamo parlato di cos'è un museo e a cosa serve. Abbiamo parlato degli ostacoli che ci impediscono di andare nei musei più spesso entrando nei dettagli: prezzi, distanze, utilizzo dei siti web, ecc. E poi, siccome abbiamo constatato che i musei possono intimidire, abbiamo cominciato a costruire un nostro museo scolastico, piccolo piccolo. Ogni studente ha creato un'opera in miniatura ispirata da qualsiasi cosa abbiano visto nella classe di arte.
Mi ha stupito e mi ha fatto molto ridere che un paio di studenti fra tutto abbiano scelto la famosa (o famigerata) banana con lo scotch di Cattelan che devo aver nominato una volta per due minuti. La riprova che tutto quello che si fa e si dice a scuola ha delle conseguenze, anche solo su pochi bambini.
Questa piccolissima idea si sta ingigantendo. Gli studenti più grandi adesso stanno cominciando addirittura a rispondere a vari annunci di lavoro: mi serviranno restauratori, guardie, qualcuno che disegni il logo del museo e delle guide.
Sono anche in contatto con un grande museo che dovrebbe mandare a scuola qualcuno che possa direttamente raccontare la sua esperienza e rispondere a tutte le domande dei ragazzi. 
Un'altra cosa che sto cercando di fare è aiutare i bambini problematici. Ce ne sono alcuni che nella libertà della classe di arte si sentono persi, ma ce ne sono tanti altri che magari si portano dentro dei traumi o altre situazioni di disagio che invece là dentro rifioriscono. Sto provando in vari modi a espandere la quantità di tempo che passano con me. Ce n'è uno che ogni tanto appare per dieci minuti, si mette in un angolo, costruisce qualcosa al volo e torna a fare le sue cose. Venire nella classe di arte è la boccata di ossigeno che gli viene concessa quando si comporta bene e vediamo dei miglioramenti. C'è una bambina che ogni tanto spalanca la porta, corre ad abbracciarmi forte e scappa via. Ognuno ha bisogno di qualcosa. 
Il mio problema è che non ho il famoso talento dei medici, quello di non farsi coinvolgere. Ci sono dei giorni che torno a casa, penso a certi sguardi e mi viene da piangere perchè qualunque cosa possa fare non è mai abbastanza. Ho letto che esiste un fenomeno chiamato compassion fatigue che si verifica quando le richieste di aiuto si moltiplicano e si diventa indifferenti alle sofferenze altrui. Per ora mi sembra di esserne del tutto immune. Per questo non bazzico così spesso questa pagina in questo periodo. Nel mio tempo libero, devo (devo, devo) staccare. Devo leggere, disegnare, camminare, ridere e -ho scoperto- ascoltare tonnellate di John Coltrane. Sono convinta che con il passare del tempo imparerò a stabilire le giuste distanze fra me e gli altri e soprattutto fra me e il mio lavoro, ma adesso sento che è giusto così, sento che è giusto provare.    

domenica 1 marzo 2020

la virginia

E poi per caso ti arrivano all'orecchio questo tipo di conversazioni.
Woody:
- Come fanno i bambini a uscire dalla pancia?
Joe, serissimo:
- Allora, ci sono due modi: o il dottore fa un buco e fa uscire il bambino oppure il bambino esce dalla Virginia.
E dalla Virginia... volevo dire dal Texas, è tutto.