domenica 25 agosto 2019

la scuola wonka

Queste prime settimane di lavoro, com'era prevedibile, sono state complicate.
La fase più difficile è stata senz'altro quella precedente all'inizio delle lezioni. E' una scuola fuori dall'ordinario in tutti i sensi, come vi raccontavo qui
Alcuni esempi?
Faccio un colloquio perfetto, mi mandano il contratto dopo due ore riempiendomi di complimenti e pregandomi di accettare, io firmo e non li sento per quasi tre mesi. Un po' di ansia ti viene. E non sono l'unica a cui sia successo, ho scoperto dopo.
Il primo giorno di formazione è girato un foglio per segnare la presenza, normale. Il secondo hanno proiettato su una parete un codice QR che bisognava aprire per segnare la presenza, più o meno normale. Il terzo giorno non hanno detto nulla della firma, ma dopo un po' ho notato che c'erano delle fotocopie di codici QR appesi a caso su una porta, sulla macchinetta delle bibite, in giro per la scuola. Ho provato a scannerizzarne uno per vedere cosa succedeva: era il file delle presenze. Poi basta, nessuno ha più richiesto di segnare le presenze. Oppure io non ho capito cosa dovevo fare e non l'ho fatto. 
Un altro giorno, arriviamo alla formazione, siamo una quarantina di insegnanti, e la vicepreside comincia a distribuire dei regali. 
- Vi starete chiedendo perchè cinque persone stanno ricevendo un regalo. E' perchè hanno letto l'email fino in fondo. 
Lo scopo dell'email era dirci di essere lì ed eravamo lì, chiaramente quindi tutti avevamo letto l'email, ma solo chi aveva avuto la curiosità o la precisione di arrivare all'ultimissima riga dopo le figure, ecc. riceveva il regalo.
Ecco, di cose così ne sono successe varie. E' come se volessero tenerti sulle spine insegnarti a ragionare in un altro modo. 
Nessuno ti spiega nulla. Prima dell'inizio della scuola, ho fatto domande ovvie: l'orario delle lezioni, quante classi ci sono, quanti bambini in ogni classe, i nomi degli studenti. La lista degli studenti, dopo dieci giorni di scuola, ancora non ce l'ho, per dire.
E' una specie di ti buttiamo in acqua e vediamo se stai a galla. Tutti ti dicono sì, l'orario delle lezioni? Certo! La lista degli studenti? Come no! Ma poi non lo fanno, non lo fanno.
Sì significa no, ma a volte anche sì. 
Un inferno lavorativo, vero? Abbastanza. 
Però, come sempre, ci sono un sacco di però.
Il primo giorno di scuola, quando sono iniziate le lezioni vere e proprie, abbiamo trovato un regalo ad aspettarci in classe e la cena pronta da portare a casa e scaldare alla fine della giornata. Sono piccoli gesti, ma importanti.
A quel punto poi tutte le grane burocratiche non contavano più. Il mio lavoro, alla fine, è insegnare e appena ho cominciato a farlo, mi sono ricordata di colpo il motivo per cui volevo così disperatamente questo lavoro. Le ore volano, mi danno fiducia totale dal punto di vista dei contenuti e della creatività. Posso proporre quello che voglio e i bambini sono meravigliosi, come sempre del resto. Ogni giorno i genitori mi mandano materiale da usare in classe. Qui funziona così: se gli piace quello che fai, ti sponsorizzano. 
E' il lavoro giusto per me. Mi sento appagata da quello che faccio. Ci sono poche cose che mi piacciano di più che semplicemente essere in quella classe. 
E poi c'è Joe che si sta trovando benissimo a scuola. Viene nella mia classe un'ora alla settimana e fa finta di non conoscermi. Le sue maestre per ora sembrano stupende, si capisce che ci tengono tanto a quello che fanno e lo vedo su di lui, è tranquillo, contento, dorme bene.
Alla spicciolata, è arrivato anche Woody. L'ho iscritto in un asilo che è proprio accanto alla mia scuola. Lui ha sofferto un bel po' nel passare da quasi tutto il tempo con la mamma a tutti i giorni tutto il giorno all'asilo, ma adesso è contento, si vede. Abbiamo anche scoperto che c'è un tunnel segreto fra le elementari e l'asilo. La mia scuola permette generosamente agli insegnanti di tenere con sè i figli prima e dopo l'orario di lezione. Così Joe e Woody non devono andare al dopo scuola, possono semplicemente aspettare nella mia classe che è un posto divertente pieno di giochi e colori, mentre io finisco con calma il mio lavoro. 
Nonostante ciò, la pressione è notevole. Le email a tutte le ore, gli studi che sono costretta a portare avanti comunque, la casa che va a rotoli. Mi sveglio sempre prima che suoni la sveglia. Ci sono dei giorni che ho un nodo di gola che non se ne va, un senso di non avere niente sotto controllo. La costante paura di aver dimenticato qualcosa di importante perchè la verità è che dimentico ogni giorno qualcosa di importante. Chiamare un'amica che sta per partorire, portare i cani dal veterinario, pagare qualcosa, presentarmi a qualche appuntamento.
La cosa buona è che sono ancora all'inizio e mi accorgo che ogni giorno va un pochino meglio. Mi sono ritrovata a pensare tantissimo al concetto di comfort zone in questo periodo. Tutti dicono che bisogna abbandonarla, ma a me manca da morire, ci salterei sopra in un secondo se postessi. Nella mia comfort zone lavoro meglio, vivo meglio, vivo. 
Vediamo di costruirne un'altra in fretta di comfort zone. Certo che questa scuola va in tutt'altra direzione. Avevo soprannominato la vecchia scuola Scuola Flanders, come il personaggio irritante dei Simpson, quello dei buongiorno buongiornino, questa invece la intitolerò al mitico Willy Wonka generoso, geniale e spietato al tempo stesso. Altro che comfort zone.

mercoledì 21 agosto 2019

della prima lezione di scrittura e della libertà

La maestra di scrittura di Joe, che è bellissima e dolcissima e sembra un angelo con i boccoli e gli occhi blu, ha chiesto agli alunni di terza elementare di scriverle una lettera per spiegarle tutto quello che potrebbe aiutarla (aiutare lei!) a insegnare a loro nel modo migliore possibile.
Cosa trovi facile, cosa trovi difficile, in che modo ti piace imparare (!), c'è qualche sera in cui fai sport dopo scuola e sei particolarmente stanco, cosa ti piace fare nel tempo libero, cose così.
E Joe è andato completamente in crisi.
Io ho cercato di aiutarlo nel pomeriggio, ci ho davvero provato. E dopo un po' sono uscita dalla stanza urlando, Mr. J idem. Non capivamo proprio che problema avesse con un compito così facile. Sembrava che ci prendesse in giro.
La maestra invece dice che è perfettamente normale per i bambini 'come lui' sentirsi persi di fronte a tanta libertà. Interessante questa cosa, la paura della libertà.
Qualcosa mi dice che vedremo delle belle anche quest'anno.

lunedì 19 agosto 2019

il senso dell'umorismo nelle situazioni di degrado

Ho passato tutta la giornata di sabato a un corso di formazione perché nonostante abbia iniziato a lavorare, mi tocca ancora finire gli studi che avevo iniziato in precedenza.
Devo dire che per una volta non mi è dispiaciuto troppo passare parte del mio fine settimana a lezione. 
Il corso era tenuto da un esperto di meccanismi cognitivi specializzato nell'intervento educativo a favore di studenti particolarmente problematici, soprattutto ragazzi e bambini provenienti da situazioni di estremo degrado. Insomma, io un insegnante che è stato accoltellato non lo avevo mai conosciuto. Raccontava delle storie incredibili.
Secondo lui è il senso dell'umorismo l'unica chiave per arrivare a far breccia nella psiche di questi soggetti. Ma quanto senso dell'umorismo ci vuole per vederlo anche nelle tragedie di cui ci parlava? In realtà abbiamo riso molto anche durante il corso. Che strana questa cosa.
Questo professore ha insegnato diversi anni in una delle città più povere degli Stati Uniti, qui in Texas vicino al confine con il Messico, dalle parti di San Antonio.
Il suo primo giorno di lavoro come vicepreside, entrando a scuola ha notato dei buchi di proiettile sulla porta. Si è guardato intorno. Non preoccuparti -lo ha rassicurato qualcuno- è successo ieri, non è morto nessuno.
Dopo qualche mese la preside della scuola è uscita a fare una passeggiata e non è mai più tornata. Nessuno sa cosa le sia successo. Per mesi hanno cercato il suo corpo in un lago là vicino dove ogni tanto pescano qualche cadavere, ma non lo hanno mai trovato. Si spera che sia stato un allontanamento volontario. E' così che è diventato preside.
Una mattina hanno trovato una mano nel giardino della scuola. Si è scoperto che proprio lì cadeva la linea di confine fra i territori di due gang rivali. Cosí lui è andato a parlare (separatamente) con i due capi e gli ha chiesto cortesemente di spostare il confine. Loro si sono scusati per l'inconveniente e in effetti, non si sono più trovati arti all'interno del plesso scolastico.
Il bambino che lo ha accoltellato faceva la quinta elementare. Mamma prostituta, papà spacciatore. All'età di sei anni è stato reclutato per portare la droga da una parte all'altra del confine. Raccontò al suo maestro che gli piacevano molto i tunnel perchè quando ci andava gli davano le caramelle. Un bambino di sei anni sa descrivere alla perfezione i tunnel sotto la frontiera e qualcuno pensa ancora che costruire un muro abbia un qualche senso.
Questo è il tipo di storie che ci ha raccontato. Situazioni estreme, è vero, ma la cosa più importante è cogliere i segnali che possono trovarsi in qualunque scuola di qualunque città e fare il possibile per andare incontro ai ragazzi e non allontanarli mai dalla scuola.
Quando questo insegnante è stato ferito, anche in modo piuttosto serio da qualche suo alunno, non ha mai sporto nessuna denuncia. Ha chiesto solo che i piccoli ribelli, chiamiamoli così, si presentassero tutti i giorni a scuola.
Secondo lui, in base ai dati che abbiamo dalle numerose ricerche fatte, possiamo dire che cose come le uniformi, i compiti e i voti non servono a nulla. Serve invece parlare con i ragazzi, trattarli da esseri umani pensanti fin da piccoli e fargli capire il perché é importante studiare. Se uno capisce perchè studia, i risultati vengono da sé. Che è esattamente quello che si pensa anche nella mia scuola.
Secondo lui sono tre i fattori che contribuiscono al successo e alla serenità di ogni bambino: il gioco, il contatto con la natura e il dialogo.
Quanto è vero, e non solo per i bambini, ma a tutte le età. Il gioco, il contatto con la natura e il dialogo, un mantra da non dimenticare.

giovedì 15 agosto 2019

il primo giorno di scuola

C'è stato un piccolo colpo di scena. 
No, non stiamo festeggiando il Ferragosto, sigh. 
All'ultimissimo momento, abbiamo fatto trasferire Joe nella mia scuola. Non è stato semplicissimo convincerlo all'inizio. Un giorno la preside lo ha portato a fare un giro e mi ha raccontato che ogni volta che lei gli mostrava qualcosa della scuola, lui le rispondeva "Sì bello, ma non mi hai ancora convinto". Sono andati avanti così per un'ora e adesso lei lo adora. Ma io so perché faceva così. "Farsi convincere", sentire tutte quelle cose belle, gli dava coraggio per fare questo piccolo, ma grande per lui, salto nel vuoto. Comunque, ieri abbiamo affrontato il nostro primo giorno insieme. Nonostante sia uscito ieri mattina senza sapere nemmeno il nome della sua maestra, tutto è filato liscio come l'olio. Era molto contento.
La cosa che lo ha colpito più di tutto è stata un poster con una frase di Einstein che è appeso nel laboratorio di scienze.
"Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido".
Deve averci visto qualcosa di personale. Forse lo stillicidio di tutte quelle partite di calcio in cui non combinava nulla, prima di capire che proprio no, non faceva per lui. È stata un'esperienza dura per lui, più passa il tempo e più me ne rendo conto.
Alla fine della giornata, mentre accompagnavo i miei studenti all'uscita, lo hanno fatto aspettare nella mia classe. Quando sono entrata con una collega, lui era sotto al tavolo. 
- Ehm... Questo è mio figlio Joe... Joe cosa stai facendo sotto al tavolo?
- Ho notato che c'erano tante piccole cose per terra (pastelli a cera spezzati, cartacce...) e le stavo raccogliendo.
Subito la collega:
- Ma che bravo! Aiuti la tua mamma a pulire la classe?
- No, veramente sto usando tutte le cose che trovo per fare una scultura astratta.


#evvivajoe

lunedì 12 agosto 2019

la curiosità, l'entusiasmo e la voglia di imparare

Una delle cose che amo della mia nuova scuola, forse la cosa che amo di più in realtà, è la sua storia. E' una storia molto insolita e piuttosto sbalorditiva anche per i parametri americani.
E' una scuola che è stata fondata solo tre anni fa. Era una notte buia e tempestosa...beh questo non lo sappiamo per certo, ma diciamo che era sicuramente notte e c'era un'insegnante che non riusciva a dormire. Da un po' di tempo aveva un tarlo in testa. Le sembrava che i suoi studenti (insegnava inglese ai bambini stranieri) non venissero accettati per quello che erano. Li vedeva come intrappolati in un sistema scolastico che percepiva le loro particolarità e differenze individuali non come talenti e potenzialità da sviluppare, ma come un intralcio al pieno raggiungimento di determinati obbiettivi burocratici. Non era la prima volta che aveva questa sensazione. In fondo non era mai stata completamente soddisfatta di nessuna scuola né come studente né come insegnante. Aveva finito per mettersi spesso nei guai perchè pensava che i risultati e la disciplina non sono tutto.
La curiosità, l'entusiasmo e la voglia di imparare sono tutto e anche quelli si possono insegnare.
Se un bambino non riesce a stare fermo, forse è un ballerino o un atleta, una di quelle persone che ragionano meglio mentre il loro corpo si muove e allora bisogna assecondarlo non cercare automaticamente di immobilizzarlo o peggio ancora, come succede spesso in questi anni, riempirlo di farmaci.
Se uno studente copia durante un compito in classe, certe volte è perchè non ha ricevuto dall'insegnante gli strumenti adeguati per rispondere alle domande e allora di chi è la colpa? Inoltre in molti casi copiare significa mettere in atto una forma di collaborazione e collaborare è una qualità indispensabile nel mondo del lavoro, qualcosa da non reprimere, ma usare, incoraggiare. Bisogna allora trovare il modo corretto per sviluppare questa qualità. E' sempre necessario fare dei distinguo. Non ci sono regole assolute nel mondo dell'insegnamento, bisogna valutare caso per caso, adattarsi alle situazioni. Insegnare non significa applicare dei regolamenti, altrimenti potrebbero farlo tutti, no?
Questa insegnante sognava per i suoi studenti una scuola dove lo studio dell'arte, del teatro e della musica non è secondario e dove perfino la matematica e le scienze possono essere esposte in modo creativo. Era convinta che, lavorando come si deve a scuola, soprattutto nei primi anni, non sia necessario riempire i pomeriggi di compiti. Aveva la strampalata convinzione che, come nelle grandi aziende della Silicon Valley, anche nelle scuole ci dovrebbe essere un momento dedicato alla creazione di qualcosa di personale, un momento in cui ogni bambino, senza pressioni, possa approfondire una sua passione, magari provando a inventare qualcosa per il gusto di farlo e vedere cosa succede. Pensava che mai e poi mai la punizione possa essere imporre il silenzio durante il pranzo o saltare l'intervallo: secondo lei al limite bisognerebbe aggiungerlo un intervallo all'orario scolastico, trattare l'intervallo quasi al pari di una materia. E trovare anche del tempo da dedicare agli altri, insegnare il volontariato, perché no? La scuola non deve essere fine a se stessa, deve insegnare come districarsi al meglio nella vita, come creare un impatto positivo sulla società. 
Questa è la scuola dei sogni, meglio tornare a dormire. Oppure no: se una scuola così non esiste, la si può costruire.
La mattina seguente chiamò due colleghe che avevano idee simili alle sue sull'educazione e queste, com'era prevedibile, scoppiarono a ridere. Aprire una scuola? Impossibile. Alla fine però le convinse: difficilissimo e rischioso sì, impossibile no. 
Per loro era fondamentale che la scuola fosse aperta davvero a tutti, senza nessuna distinzione di ceto o colore così invece di puntare su una scuola privata intrapresero un'altra strada: avrebbero aperto una scuola charter, una scuola pubblica, tenuta a raggiungere gli stessi obbiettivi di ogni altra scuola pubblica, ma che opera in maniera indipendente. 
Nel giro di un anno scrissero il progetto e non solo riuscirono a farlo approvare ottenendo i fondi necessari, ma il loro punteggio è rimasto imbattuto qui in Texas.  
Il passo successivo fu trovare gli studenti. Organizzarono eventi e riunioni un po' ovunque e i genitori furono entusiasti al punto di impegnarsi a iscrivere i figli quando ancora di fatto la scuola non esisteva. All'inizio mancava tutto, tranne l'entusiasmo. I genitori stessi si misero in prima linea per realizzare questa sorta di utopia.
I primi sei mesi, per una disputa legale, non poterono nemmeno usare il loro edificio, ma dovettero accontentarsi di alcune stanze in un'altra struttura.
Una maestra mi ha raccontato che all'inizio le diedero una cucina come classe. In mezzo c'era un tavolo da biliardo, niente banchi. Un bel problema. Si guardò intorno, trovò una lavagna, la staccò dal muro e la appoggiò sul tavolo, ne venne fuori una sorta di proto-tavolo interattivo. Perfetto esempio di pensiero creativo in azione. Ai ragazzi non sembrava vero: avevano il permesso scrivere sul banco con i pennarelli, altro che disagio. 
Ecco, ascoltando varie storie di questo tipo, mi sono venuti in mente altri ambienti di lavoro in cui magari un giorno c'è il wifi lento o si è finito l'inchiostro della stampante e tutti sbuffano e si lamentano. In questo senso, sento di aver finalmente trovato la mia tribù.
In passato mi hanno sempre lasciato fare quello che volevo con i miei alunni. Decidevo tutto, sia cosa insegnare che il metodo e ho sempre ottenuto grandi consensi, ma c'era un sottinteso piuttosto ovvio: lo puoi fare perché insegni arte, non una vera materia. Qui invece tutti hanno la mia stessa filosofia sull'insegnamento, anche molto più estrema a dire il vero.
L'altro giorno c'è stata una riunione di noi insegnanti di arte, musica e teatro e abbiamo parlato solo di una cosa: disciplina. E' buffo, ma in questa gabbia di matti stupenda in cui sono capitata, i cosiddetti creativi sono i più precisi e organizzati. Nonostante il mio grande entusiasmo attuale, è chiaro che andando avanti questa mancanza di struttura potrebbe causarmi dei problemi. Al momento la cosa non mi spaventa granché perché vedo che sì, ogni tanto ci sono degli errori, ma le intenzioni sono buone e per ora mi basta. 
In un momento storico come questo, un momento in cui il razzismo e l'odio sono usciti allo scoperto, l'esistenza di questa scuola e di queste persone, mi dà speranza. Mi sono data il permesso di pensare che sì, ci sono problemi enormi in questo paese, problemi di tutti i tipi, ma se tre professioniste, tre donne (quella che ha avuto l'idea era incinta tra l'altro), senza soldi e senza appoggi politici, sono riuscite a mettere su dal nulla un progetto di questo tipo, forse il sogno americano non è morto, forse va giusto un po' rianimato, diciamo così. Bisogna crederci e soprattutto fare in modo che ci credano gli adulti di domani. 

sabato 10 agosto 2019

costruire menti pensanti

È un periodo che non riesco a sopportare le notizie, né quelle americane né quelle italiane. Non so se anche voi avete questa sensazione, a me sembra di essere in caduta libera.
Mi piacciono molto di più e mi danno anche un minimo di speranza le storie e le notizie che sto sentendo nella mia nuova scuola.
Una maestra raccontava che in una terza media l'anno scorso, ha insegnato come funziona il voto. Hanno lavorato con grande serietà fino al punto di andarsi a vedere le statistiche di partecipazione nella nostra zona. È stato chiaro che i ragazzi in età da college non avevano votato a sufficienza. I nostri studenti hanno notato subito il problema: la democrazia è partecipazione, no? Allora si sono messi all'opera per immaginare un modo per migliorare la situazione in termini concreti perché è questo che si cerca di insegnare nella mia scuola, a cambiare le cose, "a contribuire con un verso" come diceva Whitman.
Così loro, piccoletti delle medie, si sono armati di cartelli e banchetti e sono andati al college a spiegare ai grandi perché devono andare a votare.
Questo tipo di mentalità mi rende orgogliosa, molto.

venerdì 9 agosto 2019

da dove cominciare?


Questa è la classe di arte così come appariva questa sera alle otto quando finalmente me ne sono tornata a casa. 
Vorrei tanto raccontarvi della nuova scuola, è che non so davvero da dove cominciare. Pensavo di andare a lavorare in una scuola normale, invece di normale qui non c'é quasi niente. È un caos anche, ma è un caos bellissimo, è la scuola che avrei costruito nei miei sogni. Idealmente siamo vicino alla perfezione, chissà se in pratica funzionerà, se mi piacerà lavorarci.
Di sicuro mi sento estremamente fortunata e anche orgogliosa di far parte di questa cosa.

mercoledì 7 agosto 2019

non mi abituerò mai

La vicina di casa ci fa una visita a sorpresa prima di cena.
In mano ha un ricco cesto di ciliege che mi porge.
- Ma non dovevi disturbarti! Buonissime le ciliegie, è proprio il periodo giusto. Che fantastica idea estiva, grazie, che gentile.
Rimane un'oretta, poi prende le ciliegie e se ne va.

Ecco, penso che a certe cose non mi abituerò mai.

domenica 4 agosto 2019

come mi faccio chiamare?

Al corso per nuovi insegnanti ero seduta vicino a una collega di origini indiane dal nome molto lungo e per me difficile. Le ho chiesto di ripeterlo un paio di volte perché ci tengo a impararlo bene. Lei a quel punto gentilmente me lo ha anche scritto in modo fonetico per aiutarmi. Ho avuto la sensazione che non fosse nuova a quel gesto. Pensavo di averlo memorizzato, ma già dopo poche ore non ero più sicurissima di ricordarlo tutto. Eppure so di aver fatto il possibile, è che non assomiglia davvero a nulla che conosco. 
Il mio nome è Emanuela, un nome lungo e pieno di vocali, difficilissimo per gli anglofoni.

Mi ricordo un dentista, una volta, che pensando di farmi una cortesia, si era impuntato a chiamarmi Emanuela tutto intero. Gli avevo spiegato molto chiaramente di non preoccuparsi che nessuno mai mi chiama con il mio nome tutto intero, nemmeno mia madre, ma lui niente. Era imbarazzante, anche perchè nonostante gli sforzi, non ci riusciva a dire il mio nome. Dentista+ nome storpiato: un fastidio che non vi dico, non ci sono più tornata.
Sono consapevole di avere un nome lungo e non mi offendo se viene abbreviato. Qui tutti, ma proprio tutti quelli che mi conoscono, mi chiamano Ema e per me va benissimo, lo sento mio, più mio del nome tutto intero probabilmente. Tutti lo capiscono e lo riescono a pronunciare: va bene. Il problema è che a scuola i bambini dovrebbero chiamarmi per cognome e il mio cognome è Errico, tutto sommato semplice, solo che gli americani non lo sanno dire. Suona qualcosa tipo "Urico" e io lo odio, non mi chiamo così. Quindi adesso, visto che ancora nessuno mi conosce nella nuova scuola, dovrei scegliere come farmi chiamare. Potrei scegliere Ms. Errico, Ms. Johnson o Ms. E. se volessi semplificarmi un bel po' la vita.
La collega indiana dal nome lunghissimo (e non vi dico il cognome poi) ha un'opinione molto netta a riguardo.
Mi ha consigliato di perdere un po' di tempo a farglielo imparare bene all'inizio, ma di farmi chiamare con il mio cognome tutto intero perché altrimenti è un po' come dargli degli scemi.
Dentro di me lo so che ha ragione, solo che i fatti parlano chiaro: non sono scemi, assolutamente, ma non lo sanno dire. Sono quasi 13 anni che vivo in Texas e gli americani, escluse rare eccezioni, non sanno dire nè il mio nome nè il mio cognome, è così. 

Idem per noi italiani: ancora oggi Mr. Johnson, mio marito, non è per niente soddisfatto della mia pronuncia del suo nome di battesimo. Quando viveva in Italia e in Spagna, lo hanno chiamato in qualunque modo, tranne quello giusto. Ci sarebbero delle storie divertentissime a riguardo.
Ora però, non divaghiamo. Sono a un bivio: se uso il mio cognome, di fatto cambierò cognome, diventerò Ms. Urico. Sembra assurdo, ma dovrò probabilmente cominciare (per disperazione) a dirlo male anch'io. Ogni volta che dico le mie belle R arrotate, si mettono tutti a ridere come se scherzassi.
Cosa faccio?
Il nome è importante, ha a che fare con l'identità. 
Avete dei consigli? 

Che esperienze avete avuto con il vostro nome all'estero?