venerdì 31 luglio 2020

il senso di sicurezza

Ieri mattina, mi sono svegliata e ho sentito che Trump ha intenzione di rinviare le elezioni.
E via un coro di "Che assurdità! Non può farlo, è impossibile!".
Che è vero, certo, però.
Un mese fa -nel mezzo di una terribile ondata di contagi che da allora non ha fatto altro che peggiorare e per combattere la quale al momento non ha proposto alcuna strategia- fece un altro annuncio: o le scuole riaprono come previsto o gli tagliamo i fondi.
E via un coro di "Che assurdità! Non può farlo, è impossibile, non è sicuro!".
Ora. A parte il fatto che sostenere che sia troppo pericoloso votare, ma del tutto sicuro mettere decine di persone (qualcuna sarà anche infetta visti i numeri) a contatto fra loro in uno spazio chiuso dove il più delle volte non puoi nemmeno aprire una finestra 5 giorni alla settimana per otto ore al giorno, comporta evidenti difetti di logica, secondo voi cosa è successo?
Nel giro di un secondo, dopo settimane di prudenza e silenzio assoluto, le scuole hanno cominciato ad annunciare la riapertura.
Dovreste leggerli questi piani di riapertura per farvi un'idea. Non hanno niente a che vedere con la scienza, con quello che sappiamo del virus. Quando ho mosso obiezioni precise, argomentate, scientifiche mi è stato risposto qualcosa tipo 🌈 andràtuttobene.
Vedo che ci sono orde di insegnanti che hanno giusto un paio di dubbi, ma anche tanti altri che per qualche motivo non vedono l'ora di prestarsi a questo "esperimento", come lo ha definito Dr. Fauci.
Ieri ho sentito che in Utah, nelle scuole, ci sarà la "quarantena modificata". Significa che anche gli studenti che sono venuti a contatto diretto con un malato di COVID, possono tornare a scuola, se non hanno sintomi. E niente, come al solito titoloni, ma pare che nessuno lo impedirà. Poi se ci saranno dei morti, tutti a mandare pensieri e preghiere.
In tutto questo, nelle ultime settimane abbiamo visto video di normali manifestanti pacifici arrestati o aggrediti, caricati in macchine senza contrassegni da anonimi soldati in tuta mimetica che non si sono identificati. Ho sentito più di una volta la parola Pinochet usata come verbo.

A voi è mai capitato di perdere del tutto, da un momento all'altro, il senso di sicurezza?

Ecco, io non sapevo nemmeno di avercelo un senso di sicurezza. Per me era normale vivere la mia vita, pensare a quello che dovevo fare, non a sopravvivere. Ora non più. In un certo senso è come essere in guerra, una guerra psicologica di certo, poi a novembre chissà cosa succederà.
E' una sensazione che mi sta facendo crollare. Quando dicono ti è crollato il mondo addosso. Deve essere questa cosa qui. Il mio mondo, tutto quello che conoscevo, tutto quello che con fatica avevo raggiunto, non esiste più. Tornerà? Lo speriamo tutti, ma per adesso e oramai da molti mesi, la situazione è questa.

martedì 28 luglio 2020

ruby bridges a denver

      

Nel 1960 a New Orleans Ruby Bridges fu la prima bambina di colore a frequentare una scuola di bianchi. Si ritrovò in classe da sola perché tutti gli altri bambini vennero ritirati e attirò a tal punto le ire dei razzisti che fu costretta a entrare in classe per mesi accompagnata dalla polizia. I pochi filmati dell'epoca che documentano le offese che le venivano rivolte da adulti invasati dall'odio, sono rivoltanti. Ma Ruby Bridges è comunque cresciuta ed è diventata la splendida donna che vedete nella seconda immagine. È diventata un'insegnante, un'attivista, per me un eroe e un modello inarrivabile, ne ho scritto tante volte (qui e qui). Così quando all'improvviso mi sono trovata davanti quel video proiettato proprio accanto a
The Problem We All Live With è stato un colpo al cuore. Finalmente ho visto dal vivo questo quadro che è stato così importante per me, per la mia crescita, a cui sono legati così tanti momenti della mia vita. Un quadro che ho sempre esitato a mostrare in classe per via di quella parolaccia scritta sul muro, ma che Barak Obama ha avuto l'ardire di esporre alla Casa Bianca, appena fuori dallo Studio Ovale.

A quel punto, è successa una cosa al museo. Ho cominciato a piangere come una fontana rotta, l'emozione ha avuto la meglio. Speravo di non essere notata mentre sotto la mia maschera cadevano copiose le lacrime. Non piangevo così da tantissimo tempo. Mi sono tornati in mente i miei piccoli studenti, quella bambina che assomiglia tanto a Ruby e che dopo aver ascoltato la storia, decise di mandarle una lettera di ringraziamento, quell'altra che mi chiese perché i bianchi uccidono i marroni. Ho pensato ai bambini senza scuola per tutti questi mesi che ora rischiano la salute per tornare in classe e poi all'odio che ancora resiste immutato, le manifestazioni di questi ultimi mesi. Poco è cambiato, molto è cambiato dal 1960. Cercavo di non incrociare lo sguardo di nessuno, ma il guardiano della sala appena ha visto che mi allontanavo, mi ha chiamata e ha fatto il gesto dell'abbraccio. Ovviamente non poteva abbracciarmi, ma voleva dire...ti vedo. Poi abbiamo parlato un po' ed è stato bello.

mercoledì 15 luglio 2020

quel cowboy nel deserto

Succede una cosa se vivi a Dallas. Quando decidi di uscire dal Texas devi guidare per ore, e ore, e ore. E poi magari attraversi certe zone dell'Oklahoma, del Kansas o del Colorado e non ti accorgi nemmeno di aver cambiato stato: cielo, mucche, cavalli e prati a perdita d'occhio. Il GPS dice avanti tutta per 600 miglia senza nemmeno una curva e la mente va. Di curve in realtà poi ne incontri molte. Curve ampie e curve a gomito, curve imprevedibili e curve improvvise di quelle che ti costringono a frenare, sono le famose curve della memoria
E così dal nulla, mi è tornato in mente un episodio successo tantissimi anni fa durante il mio primo viaggio in Texas con Mr. J. 
Alla stazione di servizio, l'unica nell'arco di chissà quante miglia, c'era un uomo di colore sulla cinquantina con gli stivali e il cappello da cowboy che sembrava importunare o chiedere aiuto a tutti, ma nessuno gli dava retta. Niente di strano, capita spesso di vedere persone in difficoltà nelle stazioni di servizio, no? Quella però era una situazione un po' particolare, laggiù in mezzo al nulla. Alla fine venne anche da noi. Raccontò che il suo camper era rimasto a corto di benzina e lo aveva lasciato sul ciglio della strada con la moglie dentro ad aspettarlo. Aveva camminato per dieci chilometri sotto il sole.
All'epoca non parlavo inglese. Mr. J mi spiegò cosa stava succedendo. Ci consultammo un attimo. Se diceva la verità, bisognava assolutamente aiutarlo, se non diceva la verità...ci voleva fare del male? Sembrava la trama del classico film dell'orrore ambientato in Texas. Decidemmo di seguire l'istinto e credergli. Il fatto di non avere idea di cosa dicesse, non mi permise però di abbandonare qualche esitazione.
La cosa che mi rimase più impressa di quell'episodio è che Mr. J gli chiese se poteva perquisirlo e il cowboy accettò di buon grado. Appoggiò le mani sulla macchina e dimostrò di non essere armato. Una scena che non avevo mai visto prima.

Lungo il tragitto la tensione pian piano si sciolse, lo venni a sapere successivamente. Al momento non capivo bene cosa stesse succedendo. Per quanto mi riguardava quei dieci chilometri furono lunghi. Del resto dieci chilometri sono tanti, da fare a piedi nel deserto poi. 
Quando finalmente arrivammo a destinazione, il camper era ancora là con dentro la moglie del cowboy. Aveva detto la verità. 
I motivi per cui non ho mai dimenticato quell'episodio sono legati fondamentalmente alle emozioni che ho provato io. La difficoltà della scelta, il sospetto che il tizio volesse farci del male, il grande senso di impotenza e frustrazione trovandomi impossibilitata a comprendere quello che stava succedendo a causa della barriera linguistica e infine tutte le riflessioni legate al fatto di realizzare per la prima volta di essere circondata da comuni cittadini potenzialmente armati fino ai denti.   
C'è una cosa che non ho mai considerato di quell'esperienza. Non ho mai pensato a come si doveva essere sentito quell'uomo, ho pensato solo a me, al mio punto di vista.
Mentre ero lì in mezzo al nulla l'altro giorno, dopo tutti questi anni, all'improvviso mi si è accesa una lampadina.
Ho capito, anzi ho quasi sentito, l'angoscia e l'ansia di quel pover'uomo nel deserto. Sarà stato stremato dopo aver camminato per dieci chilometri sotto il sole in un posto del genere. Se nessuno lo avesse aiutato si sarebbe fatto buio e la situazione sarebbe diventata pericolosa sul serio. Macchine che ti sfrecciano accanto, animali di ogni sorta. E soprattutto un uomo nero da solo a piedi in uno dei posti più bianchi e razzisti del sud, vent'anni fa.
Poco prima, durante lo stesso viaggio, avevo avuto il mio primissimo contatto con la polizia americana. Un poliziotto ci fermò più o meno lì, in mezzo al deserto, con una scusa ridicola. Non successe assolutamente nulla di grave, ma non fu un incontro piacevole. Non avevo mai visto un poliziotto americano da così vicino. Era enorme, ovviamente armato e per niente amichevole. Noi lì, due ragazzini, completamente indifesi e in balia di qualunque cosa avesse voluto fare. A me venne ordinato di rimanere in macchina, mentre Mr. J fu prelevato e portato nell'auto del poliziotto. Mi raccontò in seguito che la tensione si allentò quando con una battuta riuscì a coinvolgere il poliziotto in un qualche discorso di macchine. Alla fine ci lasciò andare senza farci la multa per non aver messo la freccia (nel deserto, roba da matti).
Ora, nel 2020, penso: se un uomo bianco come Mr. J non si era sentito per niente a suo agio con quel poliziotto, cosa avrebbe provato un nero? Insomma, nei panni del cowboy avrei sperato nel passaggio di una macchina della polizia (ne passano ogni tanto in quei luoghi sperduti), lui non aveva nemmeno quella speranza. Sarebbe passato dalla padella alla brace alle prese con la polizia. Anche questo non avevo mai considerato.
Probabilmente non depone a mio favore il fatto che mi ci siano voluti quasi vent'anni per provare vera empatia per quella persona, ma ci sono arrivata.
Come dice Brenè Brown I'm not here to be right, I'm here to get it right (non sono qui per avere ragione, sono qui per imparare).
Ragionando su tutto questo con Mr. J, mettendo a confronto i miei ricordi con i suoi, ho capito ancora meglio l'accaduto. Mi ha confermato che il vero motivo per cui decise di aiutare quell'uomo è che si rese conto che lì dove eravamo, considerando il colore della sua pelle, di sicuro nessun altro lo avrebbe fatto. 
Tutto questo per dire ancora una volta che le questioni razziali sono una cosa terribilmente complicata. Ci vuole tanto tempo per capire certe sfumature e di errori di valutazione se ne continuano a fare sempre, anche senza nessuna malafede.
All'epoca vivevo ancora in Italia e non considerai minimamente l'aspetto razziale. Per me lui era semplicemente una persona, che detto così sembra una cosa molto positiva, in realtà è esattamente il motivo per cui non sono riuscita a mettermi nei suoi panni e capirlo. Non avevo gli strumenti per decifrare quello che stava succedendo, oggi invece sì, me li sono costruiti anno dopo anno con molta fatica, e cerco di usarli tutti i giorni per capire me stessa, gli errori che posso sempre commettere per un motivo o per l'altro e possibilmente dare il mio contributo in classe o intervenendo quando assisto a situazioni problematiche.
Ad ogni modo, dopo quel lunghissimo viaggio, arrivati vicino a casa, bucammo. E -sorpresa- scoprimmo di non avere la ruota di scorta.
Avremmo potuto rimanere a piedi in mezzo al deserto anche noi.
Sarò naïf, ma ho sempre pensato che avere fatto qualcosa di buono per quel signore, abbia protetto noi.
Il karma ci vede. 

venerdì 3 luglio 2020

visto ascoltato letto

Una piccolissima lista di cose interessanti che ho scovato in questi ultimi giorni:
- L'ultimo episodio del podcast NPR Code Switch. Si intitola We Aren't Who We Think We Are e tocca con una delicatezza indescrivibile un argomento scabroso, un vero e proprio tabù della società americana. Se avete degli amici neri, a me è successo, vi avranno raccontato magari di avere antenati nativi. Io ho un carissimo amico che ha raccontato questa storia per tutta la vita. Poi un giorno ha fatto un test del DNA e ha scoperto con sorpresa di essere geneticamente molto più bianco che nero e anche di non avere nessuna parentela con i nativi. Questa è una cosa che ovviamente scuote le persone nel profondo e capita molto spesso. Le famiglie nere tramandano queste storie per nascondere una verità difficile da affrontare e cioè che le varie tonalità della pelle dei membri di una stessa famiglia sono quasi sempre dovuti alla violenza sessuale degli schiavisti bianchi. In questo episodio si racconta la storia di qualcuno che ha deciso di approfondire e rivelare la vera origine della sua famiglia. Si accenna anche a come erano visti gli immigrati italiani rispetto ad altre minoranze. Tutto molto molto interessante. Una parte della questione che non viene toccata dal podcast e che mi suscita molte curiosità è che, non so altrove, ma in questa zona capita altrettanto spesso di sentire bianchi raccontare di essere discendenti dei nativi. Forse ricorderete l'imbarazzo di Elizabeth Warren quando scoprì, attraverso un test genetico, di avere una parentela con gli indiani molto più lontana di quello che le era sempre stato raccontato dalla sua famiglia. Dopo quell'incidente Trump con la sua rinomata finezza, la soprannominò Pocahontas. Ecco, mi chiedo come mai così tante famiglie bianche americane tramandino con grandissimo orgoglio la leggenda di far parte di qualche tribù. Ad ogni modo, è meraviglioso che nel 2020 si possa parlare con dolore, ma apertamente e senza imbarazzi di un argomento come questo.
- Un altro podcast che mi ha fatto riflettere tantissimo, è l'ultimo episodio di Rough Translation che si intitola So Long, Black Pete e spiega la famosa tradizione del blackface in Olanda. E' illuminante vedere come altri paesi si confrontano sul razzismo. Una donna olandese di colore diceva qualcosa tipo "se cerco di fare capire a parole perchè quella tradizione è offensiva non ottengo nulla: i bianchi capiscono solo quando piango e vedono la mia sofferenza". La cosa che mi ha colpito di più è che con tutto il razzismo sistematico e la brutalità della polizia che abbiamo qui, paradossalmente siamo anche avanti anni luce rispetto allo svisceramento di questi problemi, che altrove ci sono sempre stati, ma si cominciano a delineare solo ora.
- Una serie che ho trovato geniale per vari motivi e che ho letteralmente divorato: Search Party con l'indimenticabile Maeby di Arrested Development.
- Ho finalmente visto anche un'altra serie che mi era sfuggita quando è uscita. Mozart in the Jungle con il mio idolo Gael Garcia Bernal. Le prime due stagioni mi sono piaciute davvero molto. La terza stagione ha per protagonista Monica Bellucci ed è tutta ambientata a Venezia, ma da lì in poi è un po' il salto dello squalo secondo me.
- Per la musica, vi consiglio tantissimo il talento locale Leon Bridges. Il Texas che piace a noi.
Questa volta non mi pronuncio sui libri perchè quello che ho letto ultimamente non mi è piaciuto per niente, anzi mi ha lasciato con una brutta sensazione. Stranissimo. Per fortuna che mi hanno appena regalato dei libri nuovi e soprattutto in italiano come piace a me.
Aspetto i vostri giudizi e le vostre segnalazioni come sempre.

P.S. Ho dimenticato un'ultima cosa che ho scoperto in questi giorni: uno strumento che vi permette di conoscere la situazione coronavirus negli States contea per contea. Utilissimo se vivete qui o se state viaggiando.