mercoledì 27 agosto 2014

un’emozione unica

Sono tornata dall’Italia piena di entusiasmo e di idee nuove e interessanti. Raccontavo all’insegnate piu’ aperta e fuori dagli schemi che conosca, ad esempio, di un laboratorio di cui ho sentito parlare quando ero li’. Riguarda le emozioni. Fra le altre cose, la maestra fa delle foto ai bambini in vari momenti della giornata -quando sono felici, tristi, annoiati…- e poi le mostra ai bambini stessi e alle loro famiglie durante una sorta di evento speciale o presentazione. Ne parlano tutti insieme e i bambini tendono di solito a inventare degli aneddoti di sana pianta, ma e’ molto importante perche’ per la prima volta, a tre anni, si trovano ad affrontare quelle emozioni, a osservarle, a provare a giustificarle. A quel punto, pero’ sono stata interrotta.

Molto bello, ma qua no. Non funzionerebbe mai. Gli americani non hanno un buon rapporto con le emozioni, almeno con quelle negative. I genitori non sopporterebbero mai di vedere i figli piangere a scuola in loro assenza. Nella mia classe ho appeso foto di bambini anonimi che piangono o ridono o mostrano altre emozioni e piu’ di una volta dei genitori si sono lamentati. Pretendono che tutto per un bambino sia FELICE. Se il figlio e’ sconvolto per qualche motivo, vogliono solo che smetta subito. Non chiedono all’insegnante vada a fondo e capisca qual e’ questo motivo, ma solo che faccia tornare la normalita’ nell’immediato. Non capiscono che cosi’, e’ molto piu’ probabile che il bambino non superi quell’ostacolo e si ritrovi nella stessa situazione.

Ripensavo a questa conversazione e mi sono venuti in mente tutti quegli inquietantissimi Mickey Mouse di Keith Haring. Descrivono alcuni aspetti di questa societa’ meglio di un trattato di sociologia.  Untitled

mercoledì 20 agosto 2014

di barbieri e poliziotti, di bianchi e neri

Avrete tutti letto delle grandi tensioni raziali che sono esplose in questi giorni qui negli Stati Uniti in seguito all’omicidio di Michael Brown, un diciottenne afroamericano, da parte di un poliziotto a Ferguson in Missouri. Io di tutta questa storia ne so quanto voi, ma vi racconto un paio di piccolissimi episodi che mi sono capitati ultimamente e che forse possono darvi un’idea dell’aria che si respira da queste parti.

Qualche settimana fa, sono passata per caso vicino a un negozio di parrucchiere e mi sono fermata a chiedere se avevano tempo di tagliare i capelli a Joe. Mi hanno risposto che l’attesa era piuttosto lunga e di provare dal barbiere dall’altra parte della piazza. Senza pensarci, ho preso per mano Joe, ho attraversato la piazza e ho spalancato quella porta. Mi sono ritrovata cosi’ in un ambiente completamente nuovo per me. Mi sembrava ancora una volta di essere sul set di un film. Il negozio altro non era che una grande stanza rettangolare, lunga e abbastanza stretta con il pavimento a scacchi bianchi e neri. Da un lato lavoravano i barbieri, cinque o sei, e dall’altro attendevano il proprio turno i clienti. Ogni barbiere aveva la sua postazione con un grande specchio e vari oggetti, per lo piu’ foto di personalita’ afroamericane, cantanti, attori, sportivi, politici e manufatti africani. C’era anche un grande poster con un discorso di Barack Obama. Ho avuto l’impressione che, quando ci hanno visto, per un secondo si sia fermato tutto. Quella famosa sensazione di I don’t belong here, che e’ stata una delle prime cose che ho imparato quando mi sono trasferita qui, credo di avervene parlato qualche volta. Eravamo gli unici bianchi e io ero l’unica donna. Mi hanno detto che qualcuno avrebbe potuto occuparsi dei capelli di Joe, cosi’ siamo andati a sederci. Qualcuno ci ha sorriso o ci ha chiesto come andava, dopo la sorpresa iniziale. L’attesa mi e’ sembrata lunghissima, ma piu’ passavano i minuti meno si faceva sentire quella brutta sensazione iniziale. Il barbiere che ci avevano assegnato era un omone sui cinquanta, dall’aria grave e molto poco incline alla tenerezza. Lo osservavo lavorare e mi stupiva la sua pignoleria. In realta’ non solo sua, ma di tutti. Avevo notato che quasi tutti i clienti avevano i capelli cortissimi e squadrati. Non sembravano tagli per niente complicati, ma richiedevano una quantita’ di tempo che mi sembrava eccessiva per essere completati. E non solo quello. Tutti se la prendevano estremamente comoda, chiaccheravano alla grande invece di darsi una mossa e finire il lavoro, ma nessuno si lamentava, anzi, c’era una bella atmosfera, quasi da piccolo paese, si sentiva la confidenza, la familiarita’. Tutti i barbieri erano neri IMG_20140819_224945tranne uno un po’ piu’ chiaro, latino credo e proprio lui era l’unico ad avere un cliente meno scuro, piu’ o meno della sua stessa carnagione. Insomma, dal primo secondo il colore della pelle mi e’ sembrato determinante in quell’ambiente. E ne ho avuto ulteriore conferma quando, dopo una ventina di minuti, ha fatto il suo ingresso Mr. J. ed e’ letteralmente calato il gelo. Proprio in quello stesso momento e’ arrivato il turno di Joe e il signore severo l’ha fatto salire sulla poltrona senza nessun sorriso, anzi quasi con uno scatto di fastidio che ci ha stupito perche’ nessuno riesce a non sorridere a un bambino di tre anni. In realta’, poi, e’ bastato rispondere a quel presunto fastidio con un po’ di simpatia e cordialita’ e la tensione si e’ sciolta, ma solo in parte. E’ finita che anche Joe ha ricevuto uno di quei tremendi tagli squadrati. Il barbiere sembrava cosi’ concentrato e io mi sentivo talmente poco a mio agio che l’ho lasciato fare. Forse sotto sotto speravo che, se lo avessimo lasciato lavorare in pace, alla fine avrebbe alzato lo sguardo e ci avrebbe trattato come gli altri. Mi sarebbe piaciuto andare via senza quella sensazione di ostilita’, senza quel qualcosa che conosco molto poco, ma che ferisce. Ci ha messo talmente tanto che Joe si e’ addormentato li’, con la testa fra le sue mani.

Solo in un secondo momento, ho scoperto che i Barber Shop sono un’istituzione importantissima nelle comunita’ afroamericane. Hanno radici storiche che affondano ai tempi della schiavitu’ e sono soprattutto luoghi di ritrovo per i membri di quella comunita’. Probabilmente il fastidio e la tensione che ho percepito non erano una mia fantasia. Nessuno ci ha trattato male, assolutamente, ma sono convinta che allo stesso modo, nessuno avrebbe fatto un dramma se non fossimo piu’ tornati.

Il secondo episodio mi e’ successo ieri sera. Ero stata a cena con un’amica, era quasi mezzanotte e in giro non c’era un’anima. Ero praticamente davanti a casa quando mi ha fermato una camionetta della polizia. Mi sono subito un po’ spaventata. Oltre a tutte le luci rosse e blu lampeggianti, ne hanno una chiara abbagliante, fortissima. Se, mentre aspetti nella tua auto, ti giri per vedere se arriva il poliziotto, ti acceca, e’ inquietante. Mi hanno spiegato che lo fanno perche’ cosi’ e’ piu’ difficile che vengano colpiti, in caso di sparatoria. Comunque, se ti fermano di notte ti tocca aspettare li’, seduto nella tua macchina finche’ il poliziotto non ti si materializza davanti sparandoti una torcia elettrica in faccia. Il poliziotto era bianco, mi e’ sembrato giovanissimo e inesperto. Mi ha fatto delle domande un po’ strane. Mi ha chiesto dove andavo, dove fossi stata e anche a fare cosa, perfino il nome del ristorante, che lui li conosceva anche i proprietari di quel ristorante. Ha voluto sapere perfino cosa ho ordinato e il nome della mia amica. E io ho risposto. Qualcuno mi ha detto che avrei dovuto rifiutare e forse e’ vero. Non so se ho subito un sopruso. Forse tutte quelle domande fanno parte della procedura per capire se una persona e’ ubriaca. Non lo so. So solo che sono stata presa alla sprovvista e francamente ho avuto paura. Mi sono sentita in balia di un ragazzino, un completo sprovveduto armato fino ai denti e volevo solo andarmene a casa. Un’amica mi ha detto che forse si e’ comportato cosi’ perche’ mi ha scambiato per una messicana, non so nemmeno questo. La mia sensazione e’ che stesse cercando una preda facile, che volesse evitare di trovarsi davanti qualche brutto ceffo. A me e’ sembrato che avesse paura anche lui.

Il motivo per cui mi ha fermato e’ che secondo lui andavo troppo piano. E’ da li’ che sono scaturite tutte le sue mille domande assurde. Mi ha lasciato andare solo quando gli ho detto la pura verita’: che andavo piano perche’ c’era la mia canzone preferita alla radio e stavo cercando di ascoltarla tutta prima di arrivare a casa.

- Ok, I got you!

Grande allegria. Buonanotte, scusa il disturbo.

Se ti intimidiscono cosi’ tanto quando cercando disperatamente di fare i simpatici, mi immagino cosa siano questi poliziotti americani quando cercando di farti paura.

domenica 17 agosto 2014

di campeggi, spiagge e di tutte quelle piccole cose che ti fanno innamorare di uno straniero (o della vita in un paese straniero)

Per tutta la vita, la mia idea di vacanza estiva e’ stata una sola e molto banale: sole, mare, spiaggia, lungomare e ripetere.

Per tutta la vita, l’idea di vacanza estiva di Mr. J. e’ stata una sola e molto poco banale: campeggio, possibilmente quello che qui chiamano primitivo, dove prendi la tua tendina e la pianti in un posto dove non c’e’ anima viva, a parte orsi, leoni di montagna e simili amenita’.

Ecco, quando ho conosciuto Mr. J. la mia idea di vacanza estiva ha subito un duro colpo. All’inizio, per me, cresciuta in una tipica famiglia salentina, era come avere a che fare con un marziano. Cioe’ lui non capiva perche’. Perche’ devi stare in spiaggia tutto il giorno? Cosa c’e’ di cosi’ speciale? Vuoi leggere un libro, ascoltare la musica? Non stai molto piu’ comodo sul tuo divano?

E per lui deve essere stato molto simile. Quando gli ho raccontato delle mie pochissime esperienze di campeggio, non sapeva se ridere o piangere. 

La differenza e’ che mentre io ho sempre cercato di convincere lui a fare un po’ di vita da spiaggia, lui ha fatto tutto quello che poteva per tenere me lontano dal campeggio. Il giorno prima di partire, qualche settimana fa, l’ho beccato che si informava sugli alberghi della zona, per dire. Voleva avere un piano b lui. Just in case.

Che poi sembra strano, ma sono anche queste le cose che ti fanno innamorare di uno straniero (o della vita in un paese straniero). Il fatto che ti costringa a metterti in gioco, a riflettere, che sfidi tutte quelle piccole e grandi convinzioni che hai sempre avuto. Ancora oggi, dopo piu’ di dieci anni che ci conosciamo abbiamo di questi dibattiti un giorno si’ e uno no. Fortuna che sulle cose serie siamo d’accordo.

Tornando alla spiaggia, probabilmente e’ uno di quei casi in cui basta guardarci per capire dove sta l’inghippo. Io scura, mediterranea in tutto e per tutto, lui chiarissimo, pelle delicata, biondo, occhi azzurri. Tutte quelle sensazioni che per me sono piacevoli come il sole in fronte, il sale sulla pelle, i piedi che affondano nella sabbia, rappresentano per lui il fastidio allo stato puro. Piu’ di una volta in questi anni siamo stati al mare fuori stagione. Non l’avrei detto, ma oramai non sono per niente sicura che mi piacerebbe tornare al caos degli ombrelloni e delle folle di bagnanti. Quando ci si apre a nuove asperienze, tante volte finisce che un po’ si cambia.

Per quanto riguarda il campeggio, invece, quest’anno mi sono impuntata: era arrivato il momento per me di riprovare. Certo, conosco i miei limiti e non mi sarei mai lanciata nel campeggio selvaggio che faceva lui prima, ma uno tranquillo, un minimo civilizzato, con dei bagni, delle docce se non e’ chiedere troppo, magari alternato a qualche notte in albergo, giusto per darsi una rinfrescata…perche’ no?

Arrivati li', mi e’ presa l’euforia, mi piaceva tutto, mi si e’ come aperto un nuovo mondo. Il problema e’ che avevo dimenticato di lasciare a casa una cosa davvero trascurabile in un’esperienza simile, l'ansia di fare, andare e organizzare. Allora Mr. J. mi ha fatto una proposta, una di quelle molto allettanti.

- Senti ma perche’ invece non ci sediamo qui e basta?

- A far cosa?

- A fare campeggio.

In quel momento ho capito tutto. A lui il campeggio piaceva esattamente per lo stesso motivo per cui a me piaceva la spiaggia. A quel punto, ci e’ bastato fare campeggio vicino a una spiaggia.

Volendo, non e’ poi cosi’ complicato venirsi incontro.

E sono stati davvero dei bei giorni.

Perche’ in campeggio o sulla spiaggia ci siamo resi conto di aver bisogno di una cosa sola quest’anno. Di scollegarci da tutto (e il termine scollegarci non e’ li’ a caso…), di rallentare, di stare, solo di stare.

Ed e’ questo che abbiamo fatto.

lunedì 11 agosto 2014

on the road again

10610724_793609783993303_5233839305793650958_n
Cliccando su questa foto, potete vedere un po' dei posti di cui vi parlo.
Nemmeno il tempo di riprendermi dal fuso orario che ero di nuovo in viaggio. Questa volta e’ stato un tipico road trip all’americana, io, il piccolo Joe e Mr. J. In due settimane abbiamo macinato tanti di quei chilometri che a pensarci ora vengono un po’ le vertigini. Siamo partiti da Dallas, Texas e poi Oklahoma, Missouri, Illinois, Indiana e su su fino al Michigan. E’ un viaggio bello, ma un po’ sfiancante in alcuni tratti. In Illinois ad esempio, non c’e’ assolutamente nulla, il nulla piu’ totale, solo campi di granturco per cinque o sei ore buone e poi come un’oasi nel deserto, Chicago, una citta’ piena zeppa di arte, di tutto, in cui mi ci potrei perfino vedere a vivere, anche se mi hanno consigliato di visitarla d’inverno prima di decidere. Sento di avere imparato davvero tanto durante questo viaggio, tutte quelle piccole e grandi cose che solo la strada puo’ insegnarti. Un motociclista che ti sfreccia davanti senza casco e che lascia intravedere la pistola infilata nei jeans mentre il vento gli alza la maglietta. Osservare per tre giorni in campeggio una nonna e una nipotina che stanno perennemente sedute l’una di fronte all’altra e non si rivolgono la parola, mai: la prima attaccata al cellulare e la seconda al libro che legge voracemente senza alzare gli occhi per nessun motivo, a occhio e croce avresti detto il contrario. Il cambio di clima, di flora e fauna. Ti lasci alle spalle il Texas dove, come si sente dire spesso, sembra che tutto voglia ucciderti, a partire dal clima estivo, quaranta gradi minimo ogni giorno, serpenti velenosi, ragnacci cattivi, formiche del fuoco, tornado, inondazioni e chi piu’ ne ha piu’ ne metta e arrivi in Michigan dove e’ tutto pacifico e tranquillissimo e altretutto se racconti queste cose ti guardano come se venissi da un altro pianeta. Sul lago degli Ozarks, in Missouri, ho visto un copperhead, uno dei serpenti velenosi piu’ famigerati del Nord America, fortunatamente a una certa distanza in un ruscello, ma sono emozioni, diciamo cosi’. Il lago Michigan, che e’ uno dei famosi Grandi Laghi, mi ha lasciato completamente a bocca aperta. Piu’ che un grande lago, e’ un mare di acqua dolce. Devi proprio mettertelo bene in testa che sia un lago perche’ profuma di mare ed e’ immenso, uguale al mare. Ma non ci sono gli squali e le meduse e tutte quelle brutte cose li’. Bingo. Ho trovato il mio luogo di balneazione americano preferito, peccato sia cosi’ fuori mano.
E domani, dopo due mesi di peregrinazioni, torno ufficialmente al lavoro. Mi sento rilassata e piena di energia, e’ stata una pausa estremamente utile in tutti i sensi.
Che il bello dei viaggi e’ anche questo, tornare a casa.