sabato 26 luglio 2014

l’odissea

In uno degli ultimi post mi spingevo a fare un’affermazione che e’ stata giudicata da alcuni un po’ forte e cioe’ che in viaggi come quello che faccio io per andare da Dallas a Milano (specialmente in compagnia di bambini) tutto puo’ succedere.

Ecco, dopo quest’ultimo ulteriore viaggio, mi sento di continuare strenuamente a difendere la mia opinione. Purtroppo.

Quante volte sara’ capitato anche a voi di immaginare, anche solo per un minuto -perche’ in fondo e’ assurdo, no? - di essere in qualche modo finiti sull’aereo sbagliato. Incredibilmente e’ quello che e’ successo a me, ma facciamo un passo indietro.

Il mio viaggio e’ cominciato prima ancora dell’alba, qualche giorno fa. Sono partita da casa con il giusto anticipo perche’ volevo essere sicura di aver il tempo di risolvere eventuali contrattempi visto che all’andata, all’aeroporto di Dallas, alla simpatica e competente signorina del check-in era venuto in mente di farci pagare duecento dollari per ogni valigia. In pratica secondo lei il costo di un biglietto intercontinentale non include nessun bagaglio. Un’assurdita’. Ma immaginate che la suddetta operatrice aeroportuale non vi lasci andare finche’ o pagate o le mostrate l’esatta riga del contratto in cui si dice che e’ consentito portare una valigia da 23 Kg. Ci vuole un attimo per sbrogliare la matassa, soprattutto se in quel preciso istante, tuo figlio di tre anni decide di quasi ropersi il setto nasale contro il nastro trasportatore, ma quella e’ un’altra storia.

Dicevamo. Partiamo con il giusto anticipo, le valige, piene fra l’altro di parmigliano, olio e caffe’ come nella migliore tradizione expat, pesano esattamente 23 Kg l’una. Perfetto. Il primo volo e’ puntualissimo. Andiamo a Londra, dove aspettiamo in una fantastica sala giochi il secondo, anche questo preciso come un orologio a cucu’. Joe e’ bravissimo, un vero angelo, malgrado la notte precedente una zanzara tigre gli abbia punto, fra l’altro, un orecchio e una guancia rendendolo lievemente deforme, povero bimbo. L’aereo che ci porta da Londra a Dallas e’ brutto e vecchio, ma poco male. Abbiamo un buon posto e il tempo vola. Realizzo che Joe e’ convinto che non stiamo tornando a casa, ma che stiamo semplicemente andando a prendere dada, il suo papa’, per portarlo dai nonni e cerco di spiegargli come stanno le cose. Siamo quasi arrivati, non sembra vero che sia filato tutto liscio.

E infatti.

“Gentili viaggiatori, vi informiamo che tutto procede per il meglio e stiamo per atterrare, purtroppo a Chicago invece che a Dallas. Ci scusiamo per l’inconveniente”.

Surreale. A Chicago accennano a un rifornimento di carburante, non si sa nulla di preciso. Non sanno se ci faranno scendere dall’aereo o meno. Aspettiamo. Ci fanno scendere. Andiamo a recuperare le valige per reimbarcarle di nuovo, controllo passaporti, sicurezza e, dopo una corsa estenuante, siamo di nuovo a bordo. Appena in tempo. Mi sento sollevata, avevo paura di perdere anche questo volo, ma inspiegabilmente… non parte. Aspettiamo ancora. C’e’ un piccolo problema, abbiamo una ruota sgonfia, vengono a controllare la pressione, cinque minuti e partiamo. Aspettiamo. Il tempo passa. La ruota e’ da cambiare. Ci fanno scendere. Ci dicono di non muoverci dall’area imbarco che stiamo per ripartire, passano un paio d’ore ancora. Niente cena. Fame sonno. Ci imbarcano finalmente su un altro aereo. Stiamo per decollare! O no? Stavolta il problema e’ che una trentina di passeggeri non sono tornati a bordo. Che razza di problema e’? Quando mai si e’ visto un aereo che non parte finche’ tutti i passeggeri sono a bordo? Mentre aspettiamo, alcuni tornano a bordo con le buste del duty free e gli siamo tutti molto grati. Le hostess fanno l’appello come a scuola. Se sentite il vostro nome suonate la campanella. Passano i quarti d’ora, e’ tutto molto ridicolo e avvilente, ma finalmente decolliamo. Vuoti d’aria, piccole turbolenze, ma arriviamo a Dallas. Almeno per noi e’ l’ultima destinazione, altri compagni di viaggio non sono cosi’ fortunati e dovranno passare la notte in aeroporto prima di imbarcarsi nuovamente, si’ perche’ il comandante informa che al momento non sono disponibili camere d’albergo.

Conosco tante persone che viaggiano molto e ho sempre sentito dire che piu’ si viaggia, piu’ l’aereo fa paura. Io di paura non ne ho mai avuta, ma questa volta vi confesso che qualche brutto pensiero l’ho fatto. Beh, avrete sentito anche voi le notizie, tre aerei caduti in pochissimi giorni e poi Mr. Johnson mi ha detto che la storia del carburante era una balla e che sul sito della compagnia si parlava di un atterraggio a Chicago per una riparazione gia’ subito dopo il decollo da Londra. Abbiamo volato piu’ di quattro ore con questo ipotetico “guasto” allora? Tutto questo non e’ molto rassicurante.

Per concludere, sono felice di essere arrivata a casa sana e salva insieme a Joe tutto qui. E faro’ tutto quello che posso per avere un risarcimento (a proposito, se qualcuno avesse delle informazioni in proposito, lo ringrazierei vivamente). Ma sapete che cos’e’ la cosa che davvero mi ha fatto infuriare piu’ di tutto in questa storia?

La reazione degli americani.

Gli altri molto meno, ma gli americani erano tranquilli, sorridevano loro, almeno fino all’ultimo imbarco. Perdevano giorni di vacanza, aerei, ore di sonno e sorridevano sempre. Non lo dimentichero’ mai. Quando siamo atterrati a Dallas c’era questo povero ultraottantenne seduto vicino a noi. Per tutto il viaggio l’ho guardato con apprensione, stava in piedi a malapena, era tutto curvo, chissa’ che mal di schiena dopo tutte quelle ore. Non ci crederete, ma all’atterraggio per prima cosa si e’ voltato verso il personale di volo (che non era stato per niente gentile e che, tra l’altro, era cambiato a Chicago, quindi era appena entrato in servizio) e gli ha detto “beh io adesso vado a dormire nel mio letto, mi dispiace che voi invece siate ancora qui a lavorare”.

Quasi gli chiedeva scusa lui. Mi rendo conto che fare una scenata, come avrei immensamente voluto fare io, forse non sarebbe servito a niente (o forse si?), ma come si fa a essere cosi’ remissivi, cosi’ apologetic a prescindere? Mi spiegano che come al solito l’atteggiamento confrontational tipico di noi italiani e’ visto come maleducato, ma… ce l’avete il sangue nelle vene? Sul serio. Non credo che loro fossero meno stanchi e demoralizzati degli altri passeggeri, ma esternarlo mai e poi mai. Che noia!

Poi un giorno forse vi raccontero’ su cosa ho riflettuto quando ero in Italia riguardo ai rapporti personali qua e la’. Per adesso passo e chiudo. 

 

Post Scriptum.

Subito dopo il viaggio, la compagnia aerea si e’ scusata via email e ha anche generosamente offerto di aggiungere un po’ di miglia extra sul mio conto e quello di Joe. Ho risposto che conoscevo i miei diritti e che in base a una certa legge europea (Regulation 261/2004) avevo diritto a un certo rimborso. Hanno accettato senza nessuna lamentela. La lezione e’: loro cercheranno di non rispettare la legge, ma se gli fate capire che la conoscete, giustizia sara’ fatta.

Spero questa mia esperienza possa essere utile a qualcuno di voi.   

venerdì 25 luglio 2014

palloncini o palle gonfie

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Questo e’ un oggetto che ho trovato nella dispensa dei miei in Italia.
Un errore tipico di chi sta imparando una lingua: cercare sempre il modo più difficile per esprimere un concetto, anche semplicissimo.
Comunque no, caro traduttore. Mi hai fatto molto ridere, ma le palle gonfie e i palloncini sono due cose ben diverse anche in inglese.