venerdì 31 gennaio 2020

questioni complicate

Poche ore dopo la morte di Kobe Bryant, una giornalista del Washington Post ha postato un tweet che faceva riferimento a una brutta vicenda che nel 2003 lo aveva visto finire in tribunale e perdere molti sponsor per violenze sessuali. Il risultato è stato che nel giro di pochi istanti la giornalista è stata sommersa di minacce e il suo giornale invece di difenderla, l'ha sospesa.
Ora, ognuno può avere l'opinione che vuole su un giocatore di basket che muore insieme alla figlia tredicenne e a diverse altre persone in circostanze così tragiche, ma quello che la giornalista del WaPo ha diffuso non era un'opinione, era una notizia.
Una giornalista ha diffuso una notizia ed è stata sospesa.
E' sbagliato, no?
E infatti, nel giro di un paio di giorni grazie alla difesa di numerosi colleghi e lettori, il giornale è tornato sui suoi passi.
Evidentemente, come società, non siamo ancora in grado di accettare allo stesso tempo la grandezza, ma anche le ombre di un personaggio pubblico amato.
Mi viene in mente Michael Jackson. Per molti è difficile ammettere il genio musicale e anche l'orrore che suscitano alcuni episodi della sua vita.
Eppure non mi pare ci siano grandi dubbi su nessuna delle due cose.
Forse dobbiamo crescere tutti quanti e capire semplicemente che nella vita non è tutto bianco o tutto nero. Ognuno ha le sue ombre e quelle di chi sta sotto i riflettori, sono sotto gli occhi di tutti.
Chi fa le spese di questo tipo di situazioni sono soprattutto le vittime. E non solo le vittime dirette di questi personaggi, ma anche tutte quelle che hanno subito violenze simili e che realizzano di non poter nemmeno aprire bocca senza finire sotto tiro un'altra volta.
Per concludere c'è un'ultima cosa da sottolineare. La giornalista sospesa non è stata l'unica a postare quella notizia, ma gli altri sono quasi tutti uomini. Il messaggio che mi arriva forte e chiaro in quanto essere umano appartenente al suo stesso sesso è che una donna che disturba in qualunque modo, deve essere immediatamente azzittita e anche punita in modo esemplare.
E' la seconda volta nel giro di una settimana che qui negli Stati Uniti qualcuno cerca di intimidire e mettere alla gogna una giornalista donna solo per aver osato fare il proprio lavoro. Mi riferisco al caso, ancora più clamoroso di Mary Louise Kelly e del Segretario di Stato Mike Pompeo.
Vi ricordate quello che si diceva qualche giorno fa sul razzismo? Che quando dite a qualcuno frasi tipo "non tutto è una questione di razzismo" o "tu vedi il razzismo dappertutto" state facendo il gioco dei razzisti? Ecco si può benissimo sostituire la parola maschilismo alla parola razzismo e il concetto continua a reggere perfettamente.
C'è tanta strada da fare.

domenica 26 gennaio 2020

il peso delle cose

Uno dei motivi per cui per molto tempo non sono riuscita a pubblicare il post precedente -forse il motivo principale, a dire il vero- è una conversazione che ho avuto con un'amica messicana all'epoca dell'uscita del film Roma di Alfonso Cuaròn, un paio d'anni fa ormai.
Ne parlavano tutti in quel periodo e una sera a cena per caso qualcuno tirò fuori il discorso. Era la prima volta che un regista importante faceva un film su un'indigena messicana, cioè su qualcuno che in fondo somigliava abbastanza alla mia amica, anche fisicamente. La protagonista, Yalitza Aparicio, in quel periodo era lodata e celebrata ovunque e questa cosa mi commuoveva. Mi sembrava un segno di progresso che per la prima volta nell'immaginario collettivo ci fosse uno spazio dignitoso anche per quella parte della società messicana e per quel particolare modello estetico. Devo ammettere che davo quasi per scontato che alla mia amica fosse piaciuto. Invece era furiosa.
Per lei quel film era solo un'operazione commerciale molto furba e ben studiata. Il regista aveva fatto finta di raccontare la storia di una balia indigena. In realtà -si lamentava- il personaggio non aveva profondità psicologica e il vero protagonista era lui, il solito uomo bianco ricco con tutti i suoi inutili sensi di colpa. Non salvava nemmeno la Aparicio, sostenendo che non è una vera attrice e non meritava di vincere l'Oscar. Non so se questa sia un'opinione dominante in Messico, certamente non immaginavo che esistesse questo tipo di lettura prima di ascoltare lei. Le sue osservazioni mi hanno aperto gli occhi su un mondo che non conoscevo per niente. Ho cominciato a guardare le cose dal suo punto di vista e mi sono accorta che effettivamente era Cuaròn quello al centro dell'attenzione, quello che nelle interviste parlava lungamente dei suoi privilegi e dei suoi terribili sensi di colpa facendo sempre una bellissima figura. Non aveva tutti i torti la mia amica. 
A volte non si dà peso alle cose, soprattutto le cose che per noi non hanno peso, quelle che non ci riguardano da vicino. E' solo un film, si dice, come nel caso di Green Book o A Spasso con Miss Daisy o Roma. Il fatto è che un film in cui ti senti rappresentato male, dove vedi la tua storia, la tragedia della tua famiglia, trasformata in un qualcosa che può intrattenere e far sentire a posto con la coscienza le masse occidentali contribuendo a creare in giro per il mondo un'impressione di realtà in cui non ti riconosci, diventa una sorta di menzogna che come tale può ferire e indignare. 
Ognuno dovrebbe essere libero di raccontare la propria storia. Una regista indigena messicana in grado di raggiungere il pubblico mondiale, purtroppo ancora non c'è, ma il personaggio chiave della mia piccolissi(missimissi)ma storia, la maestra dell'asilo di Joe che mi aveva detto di fare più attenzione, era tutto sommato a portata di mano ed era giusto che dicesse la sua e che sapesse anche quanto il suo gesto avesse significato per me.
Non ci si pensa mai, ma il razzismo implica anche una stranissima gerarchia dei sentimenti per cui quando se ne parla, il punto di vista è quasi sempre quello di chi ne è al di fuori e a chi lo subisce spesso tocca pure preoccuparsi di non mettere troppo a disagio o consolare chi l'osserva dall'esterno o addirittura lo porta avanti. Deve sempre esserci un lieto fine o qualcosa che addolcisca una realtà che altrimenti risulta insopportabile.
Non volevo che la mia piccola storia fosse solo mia, volevo condividerla con lei e dirle grazie.   
Ci ho pensato per anni a questa cosa, sul serio. Qui non si parla di argomenti così delicati fra semplici conoscenti, non sai mai come le persone possano reagire, puoi toccare dei nervi scoperti e fare molto male. C'è voluto coraggio a invitarla a bere un caffè, però ho pensato che se io fossi stata al posto suo avrei voluto sapere. 
Mi ero preparata una sorta di discorso, ma una volta lì, come durante un'esame importante, l'emozione ha avuto la meglio. Non sapevo da che parte cominciare. Le ho chiesto a bruciapelo:
- Ti ricordi quella volta che hai insegnato a Joe la storia di Ruby Bridges? 
Ruby Bridges è stata la prima bambina nera a frequentare una scuola bianca in Luisiana nel 1960. Joe aveva cinque anni, ora ne ha nove. Era tornato a casa sconvolto un pomeriggio. "Mamma, lo sai che in un tempo lunghissimo (la sua traduzione di a long time ago) le persone bianche non volevano stare con le persone nere?
- Certo che mi ricordo! - e si è come illuminata- mi hai scritto una lettera e mi hai fatto un regalo. In tutta la mia carriera mai nessuno mi ha fatto un regalo per avere insegnato qualcosa. Parlo ancora di Joe ai bambini, ogni volta che leggo la storia di Ruby. 
Lo so che è assurdo, ma avevo completamente dimenticato questa parte della storia. Sono negata con i biglietti di buon compleanno e tutte le feste comandate, ma ho sempre avuto l'abitudine di scrivere agli estranei che mi aiutano o che in qualche modo mi colpiscono. Lo faccio d'istinto e me ne dimentico perchè chiaramente non mi rispondono (di solito non possono nemmeno volendo) e finisce lì. Sono un po' fuori, ma in fondo, non faccio nulla di male, no? Nemmeno lei mi aveva risposto, nemmeno un grazie, ed è piuttosto insolito nel paese delle thank you cards. Dopo qualche tempo qualcuno mi raccontò che era andata a mostrare la lettera con le lacrime agli occhi a tutti i colleghi. Lo so perchè controllando bene ho visto che ovviamente anche allora ne avevo scritto da qualche parte.
Lei non se ne rendeva conto, ma mi aveva fatto un favore inestimabile. E' stata la prima insegnante ad aver parlato a Joe di quello che è stato questo paese fino a pochi decenni fa, ad averlo davvero fatto riflettere, ad aver aperto la porta all'empatia. E non solo questo. Joe ha insegnato la storia di Ruby Bridges a me e io a mia volta la sto insegnando a centinaia di studenti da anni. Ho provato in tanti modi a fare passare il messaggio dell'eguaglianza a scuola, ma finora non ho trovato nulla che faccia breccia nel cuore dei bambini piccoli come questa vicenda. L'altro giorno c'è stata una bambina a scuola, l'unica nera della sua classe, una bambina che purtroppo a sei anni ha già capito come vanno queste cose, che quando ha scoperto con immensa sorpresa che Ruby è ancora viva e vegeta (tendono sempre a immaginare che si parli di secoli fa, sigh...) le ha scritto un biglietto di ringraziamento.
Tutta questa cascata di eventi positivi, non ci sarebbe stata se quella maestra quel giorno di qualche hanno fa non avesse letto quel libro.
Il ghiaccio si è sciolto in un secondo e abbiamo parlato per un paio d'ore buone. E' stata un'esperienza particolarissima. Ci siamo fatte delle confidenze molto intime, senza essere amiche, senza esserci mai nemmeno viste per anni. Ho sentito tanto, tantissimo dolore nelle sue esperienze, nelle sue piccole lotte quotidiane, un giorno scriverò anche di questo forse. Lei pensava di parlare ai muri in tutti questi anni, invece ora sa che tutto quello che fa, in parte almeno, arriva a destinazione. Joe non sarà certo stato l'unico bambino a rimanere colpito, probabilmente i genitori bianchi americani non hanno trovato il coraggio per parlarle e per ringraziarla come ho fatto io che in questo senso, rimango sempre un outsider, non ho quel senso di vergogna che hanno spesso loro. 
Abbiamo pianto anche. Io non avevo mai capito quanto il mio gesto avesse significato per lei e lei non aveva mai capito quanto il suo gesto avesse significato per me. E' stato bello dirselo, ringraziarsi, spronarsi a continuare così a dispetto delle circostanze.
Ci siamo un po' cambiate la vita a vicenda.
Più passano gli anni e più mi convinco che guardare certe persone negli occhi, o scrivere se si è poco coraggiosi come la sottoscritta, e ringraziarle o scusarsi in certi casi, sia la cosa più difficile, ma anche più importante della vita. 
Dopo la parata per Martin Luther King, la settimana scorsa, c'è stata una celebrazione. Qualcuno dal palco, ha detto qualcosa tipo:
- Vogliamo una vita piena di successo o piena di significato?
Ecco questo.

lunedì 20 gennaio 2020

fai più attenzione

Questo non è un post come gli altri. Dentro c'è più o meno tutto quello che ho capito sul razzismo da quando mi sono trasferita in Texas. E' da mesi che lo scrivo e lo riscrivo. Avevo quasi rinunciato a pubblicarlo perchè ci tengo così tanto che mi fa sentire vulnerabile. Poi recentemente non solo sono successi una serie di fatti legati al razzismo a scuola, ma ho anche rivisto la persona che mi ha detto fai più attenzione, così ho deciso di non tirarmi indietro in suo onore. Combinazione è anche Martin Luther King Day e allora se viva, parliamone.

Appena arrivata a Dallas, nel lontano 2006, mi venne spontaneo ripetere un gesto banalissimo del mio quotidiano milanese: prendere un autobus e fare un giro in centro. Mi accorsi subito che prendere un autobus a Dallas, nel 2006 almeno, era un gesto che di banale aveva ben poco. Ne scrissi in un post che si intitola Come una pagina bianca perchè mi resi conto che se volevo sopravvivere in questo nuovo mondo dovevo tornare a essere come una pagina bianca, cancellare dalla mia memoria quasi tutto quello che sapevo e imparare tutto da capo. 
Di quel mio primo viaggio in autobus però evitai di raccontare forse l'aspetto più importante: per la prima volta in vita mia, feci l'esperienza di essere l'unica persona bianca. Appena misi piede su quell'autobus l'autista ispanica ebbe come un moto di allarme e si sentì in dovere di mettermi in guardia: nascondi la macchina fotografica, non guardare nessuno e non parlare con nessuno. Lì per lì pensai che fosse perchè avevo l'aria da turista, ma non era solo questo ovviamente. Ero così disabituata a notare il colore della pelle delle persone che mi ci sono voluti anni a elaborare quella situazione. Sono stata educata fin da piccolissima sia a casa che a scuola a pensare che siamo tutti uguali e questo, in un certo senso può essere vero e sacrosanto, ma è anche una semplificazione eccessiva della realtà, una di quelle che ti fanno sentire a posto con la coscienza, ma che ti impediscono di notare le disparità e soffermarti sui motivi storici per cui nella realtà poi no, non siamo affatto tutti uguali purtroppo. Non abbiamo tutti le stesse opportunità e non veniamo trattati tutti allo stesso modo.
Ragionando su tutto il mio percorso di questi anni, adesso non faccio nessuna fatica a vedere che fu quella la primissima volta in cui mi sono trovata di fronte a uno dei miei più grandi privilegi: non aver mai, mai e poi mai in tutta la mia vita precedente dovuto pensare al colore della mia pelle. Qualunque cosa mi fosse capitata, non aveva nessuna relazione con il colore della mia pelle. 
E' un fatto che tanti nella mia vecchia parte di mondo danno per scontato, ma che di scontato non ha proprio niente.
Pian piano cominciai a notare tante piccole cose intorno a me.
Non mi sono mai sentita discriminata in nessun modo in quanto italiana. Ho ricevuto qualche discriminazione positiva al limite.
Quando andai a lavorare alla scuola Flanders, ad esempio, a malapena parlavo inglese, ma mandarono una lettera a tutti i genitori per far sapere in pompa magna quanto fossero orgogliosi di avere assunto una competentissima insegnante italiana. Non ricordo niente di simile per altri nella mia posizione, ma sono cose che realizzi a posteriori, nel mentre ti senti solo apprezzato.  
Il momento di svolta nella mia percezione delle questioni razziali è legato alla scelta di adottare un bambino. Come forse qualcuno di voi ricorderà finì che scoprii di essere incinta di Joe il giorno prima di ricevere l'ultimo documento necessario a finalizzare l'adozione (sì, queste cose succedono davvero, qui). Prima di arrivare a quell'epilogo però ci furono molti mesi di studio e autoanalisi. Ci rivolgemmo a una rinomata agenzia specializzata in adozioni interrazziali perchè scoprimmo che i bambini di colore erano quelli che faticavano di più a trovare dei genitori. I corsi preparatori all'adozione erano incentrati sulle differenze culturali e da lì nacque il mio interesse profondo per questi temi anche perché sono argomenti da cui quasi tutti in questo paese e non solo, si tengono allegramente alla larga. Loro, quelli dell'agenzia invece, erano dei carri armati che non usavano mezze misure e non cercavano in nessun modo di addolcirti la pillola. Volevano solo prepararti alla realtà, avvisarti anche, darti eventualmente il tempo di tornare sui tuoi passi. Sembrava non  aspettassero altro che radere al suolo le tue poche certezze. Si parlava di questioni pesanti in quegli incontri.
Ci spiegarono, ad esempio, come reagire se in un locale pubblico qualcuno ci avesse insultato in quanto genitori adottivi di un bambino di colore. Resisteva nella comunità nera il pregiudizio che i bianchi rubassero i loro bambini. Ci parlarono di internal bias, quei retaggi razzisti che tutti noi abbiamo senza accorgercene per via soprattutto della nostra educazione e tante altre cose che ci sono capitate nella vita. 
Il fascino, la forza e allo stesso tempo la debolezza dei temi legati al razzismo è che se vuoi affrontarli e capirci qualcosa devi essere disposto a metterti in discussione in prima persona e rassegnarti all'idea che tu pure, con tutta la tua buona fede, qualche discriminazione la fai, anche solo con il pensiero, del tutto inconsciamente.
Dopo qualche anno successe un altro evento decisivo. Lavoravo ancora alla Scuola Flanders e mi arrivò all'orecchio la bizzarra voce che una famiglia aveva ritirato entrambi i figli perchè riteneva che la maestra li discriminasse in quanto afroamericani. Figuriamoci! A me sembrò l'idea più assurda del mondo, conoscendo la scuola e i miei colleghi. Però mi rimase impressa questa cosa, chiaramente risvegliò delle altre sensazioni a cui non avevo mai voluto dare peso o credere. Così un giorno parlando del più e del meno con la maestra dell'asilo di Joe, che è nera, le raccontai questo episodio. Probabilmente volevo essere rassicurata mentre affermavo che una cosa simile nella mia scuola fosse impossibile e anche impensabile. Lei invece mi guardò dritta negli occhi e mi disse solo: 
- Sei sicura? Queste cose succedono ogni giorno. Fai più attenzione.
Fai più attenzione. Questa sua frase in un certo senso mi ha cambiato la vita. Può sembrare strano, ma solo allora mi resi conto che in quella scuola, a parte pochissimi studenti, erano tutti bianchi, tutto lo staff, tutti gli insegnanti, tutti tranne quelli che pulivano guarda caso. 
E il personale delle pulizie ci dava del lei. Chiesi in tutti i modi di essere chiamata per nome, ma non ci fu mai verso. Adesso realizzo che questa ostinazione di persone molto più anziane di me a darmi del lei e a pretendere il tu era un retaggio culturale, una sorta di timore reverenziale. 
Una volta mi svegliai nel mezzo della notte.
La lenta scoperta di questi fatti, mi ha spesso tolto il sonno.
Mi venne in mente che a un certo punto, per un paio d'anni c'era stata una maestra nera alla Scuola Flanders. Era bravissima, non solo una delle insegnanti più competenti e qualificate, ma anche una grande persona sul piano interpersonale che mi ha insegnato alcune cose fondamentali che porto con me. Cosa le era successo? Perchè  se ne andò di punto in bianco? Dovetti scavare un po', ma alla fine scoprii che dovendo tagliare una classe, le era stata preferita una maestra bianca che non solo aveva molti meno anni di esperienza di lei, ma che si era addirittura offerta volontaria di andarsene perchè aveva deciso di avere un figlio e fare la casalinga. Quando rimase incinta, infatti, mantenne fede al suo proposito di andarsene, ma a quel punto assunsero un'altra insegnante bianca e per di più una persona che non aveva nessuna esperienza in quel campo.
Nell'ultimo periodo entrai un pochino in confidenza con il signore delle pulizie. Mi raccontò molte cose, ad esempio che i bambini che a scuola lo adoravano e lo riempivano di disegni e letterine, in presenza dei genitori lo ignoravano. Un comportamento abbastanza inquietante.
Pian piano mi resi conto di tante di quelle cose, fu come una valanga. La scuola era seggio di voto alle presidenziali del 2016, le televisioni stavano appostate nel nostro parcheggio tutti i giorni, vivevamo dei piccoli disagi concreti legati a questo, eppure non sentii mai un solo commento su quello che stava succedendo, mai una sola parola su o contro Trump e lo trovai incomprensibile dato che i valori che esprimeva erano diametralmente opposti a quelli di cui ci riempivamo la bocca ogni giorno. Ricordo che dopo l'elezione di Trump, la recita di fine anno, che era sempre stata incentrata sulla religione cambiò tema: musical nazionalista, tutti vestiti da zio Sam e come sfondo una di quelle bandiere di dieci metri che qui vedi solo dai concessionari di auto. Può darsi che sia stato un caso certo, ma può anche darsi che sia stato un qualche tipo di segnale. 
E' difficile pensare che le stesse persone che ti hanno sempre trattato con i guanti possano comportarsi diversamente con qualcun altro, ma è proprio così che vanno queste cose di solito.
E ancora più difficile è pensare che tu stesso che ce la metti tutta, che non fai altro che leggere e ascoltare chi ne sa di più, possa operare delle scelte inconsapevoli o formarti delle opinioni sulla base di una qualche discriminazione culturale.
Perchè sì, quel discorso delle internal bias che ci avevano fatto al corso sull'adozione è tornato e di sicuro tornerà fuori mille volte. Ed è dura rimettersi continuamente in discussione.
L'ultima volta che mi è capitato è stato qualche mese fa. Mr J mi ha fatto notare che avevo applicato il classico stereotipo della donna afroamericana arrabbiata (qui) a una persona che non conoscevo, solo sulla base di alcune sue caratteristiche esteriori come l'abbigliamento o la pettinatura. Il suo modo di porsi mi aveva intimidito e al momento mi sono sentita un verme per questo, però la verità è che quel tipo di stereotipi dominano il nostro immaginario culturale, è difficile smontarli, sostituire immagini positive a quelle negative. Accorgersi di commettere degli errori come sempre è il primo passo verso il miglioramento. Dopo tutti questi anni di studio del problema, sono sempre sul chi va là, anche per quanto riguarda me stessa e se mi accorgo di aver fatto un errore come in questo caso, mi scuso immediatamente se posso e ringrazio chi me lo ha fatto notare. Quando invece (raramente) capita a me di fare notare una qualche pecca a qualcuno, soprattutto in Italia, sono guai. Mi è capitato di affrontare questi discorsi giusto un paio di volte e solo con amici a cui voglio un mondo di bene. Ancora ricordo la tensione, la paura di aver perso un'amicizia addirittura.
L'anno scorso cercavo di fare capire a una delle mie più care amiche a cui era piaciuto molto il film Il Libro Verde quanta sofferenza quel film avesse causato agli spettatori afroamericani (trovate qualcosa qui e qui se vi interessa la questione). Non ci fu nulla da fare. Bisognò far cadere il discorso per non litigare. Su altre cose è più facile discutere, i discorsi sul razzismo invece implicano un giudizio morale che ci fa tremare, ci fa alzare muri, ci impedisce di accogliere l'obiezione dell'altro serenamente. Sono discussioni che toccano dei nervi scoperti, delle debolezze, delle leggerezze e possono finire molto male.
In conclusione di tutto questo lungo flusso di coscienza, vorrei dirvi solo l'unica cosa che ho capito. Quando c'è di mezzo il razzismo, quasi sempre ci parliamo addosso fra noi che in fondo il problema non ce l'abbiamo, rimbalzano le opinioni, la sensibilità dell'uno o dell'altro, ma questo non deve farci dimenticare che il razzismo non è un'opinione, è un fenomeno che esiste e viene studiato in modo approfondito da diversi decenni almeno qui negli Stati Uniti. Forse solo se vi prenderete la briga di andare a cercarvi i dati e leggere gli studi, vi renderete conto sul serio di cosa sia.
Il razzismo sono le donne di colore che muoiono di parto molto più di quelle bianche. Il razzismo sono le famiglie nere che in circostanze analoghe a quelle delle bianche, non riescono a conservare e a passare la propria ricchezza alle generazioni successive. Il razzismo sono i bambini neri che fin dall'asilo vengono puniti in modo più severo rispetto ai bianchi. Il razzismo inteso come discriminazione quotidiana causa una forma di stress che peggiora le condizioni di salute generali delle persone che lo subiscono.
Il razzismo c'è. 
Ricordate che quando dite a qualcuno frasi tipo non tutto è una questione di razzismo o tu vedi il razzismo ovunque, state usando uno gli argomenti tipici usati da sempre per mettere a tacere quelli che il razzismo lo subiscono.
Quando qualcuno tira fuori l'argomento, ascoltiamo molto bene e interroghiamoci sempre su noi stessi per primi.
Decidiamo da che parte vogliamo stare e diciamolo forte e chiaro quando vediamo qualcosa che non va. Spetta soprattutto a chi non è coinvolto direttamente difendere chi ha subito un torto in silenzio e in sostanza... fare più attenzione.    

sabato 18 gennaio 2020

come faccio?

Quando mi succedono cose tipo quelle che vi raccontavo nell'ultimo post, c'è sempre qualcuno che mi chiede...ma come fai? E io potrei rispondere in tanti modi, potrei rispondere perfino  con delle domande in realtà, ma alla fine, è inutile complicare le cose.
La verità è che quando le sfide sono grandi, sono grandi anche le soddisfazioni.
Per riassumere. La settimana scorsa un piccolissimo gruppo di miei studenti ha deciso di prendere in giro nientemeno che Martin Luther King e la persona che avrebbe dovuto aiutarmi a fargli capire l'errore, mi ha caldamente invitata a farmi gli affari miei e a non tirare più fuori l'argomento. Io mi sono presa una serata di profonda tristezza, questo sì, e il giorno dopo sono tornata alla carica, scoprendo tra l'altro, di non essere affatto sola nella mia piccola grande battaglia.
Questa settimana quando quella classe è tornata da me, non ho additato nessuno. Non ce n'era bisogno, ognuno sapeva benissimo cosa aveva fatto o non fatto. Non ho nemmeno parlato di Martin Luther King. Ho corso un rischio e ho deciso di fargli vedere il Ted Talk sul razzismo della fotografa brasiliana Angélica Dass che trovate qui (è sottotitolato anche in italiano). Dura più di dieci minuti e non è per certamente un prodotto per bambini. Si tratta di un discorso abbastanza complesso sulle etichette basate sul colore della pelle che ci assegnamo a vicenda e tutte le contraddizioni che vi ruotano attorno. Perchè davanti a due persone dello stesso identico colore si decide che una è bianca e una è nera? Sono gli occhi, il naso, i capelli? Il conto in banca? E si torna al concetto di uguaglianza e a Martin Luther King senza nemmeno nominarlo. 
Ho fatto bene a dare fiducia alla classe. Non è volata una mosca per tutto il video e quando è finito, è addirittura partito un applauso spontaneo.
E' stato uno di quei momenti.
Quei momenti che ti segnano, che ti fanno sentire utile, importante, quelli che ti fanno andare sempre avanti con passione, con determinazione e con entusiasmo.
E poi non si smette mai di imparare. Dopo il video, ho rispiegato il da farsi e ho aggiunto una frase che credo continuerò ad aggiungere ogni volta che si parlerà di questi argomenti: se qualcuno non è d'accordo, se qualcuno ha dei dubbi sul concetto di uguaglianza, se qualcuno ha sentito idee contrarie a casa o altrove, può venire a parlarmene in qualunque momento, anche in privato se si vergogna di parlare davanti a tutti, anche fra un mese o fra un anno, sono sempre a vostra disposizione. I ragazzi hanno bisogno di sentirselo dire che possono parlare anche di questi temi senza finire nei guai. Non devono esserci tabù. Prima non me ne rendevo conto. Non c'è solo la scuola nella loro vita, ci sono tante altre influenze che possono confonderli.
Il bambino che citando il celebre discorso, sotto al ritratto di Martin Luther King la settimana scorsa aveva scritto "Io ho un sogno, dormire", ha corretto "Io ho un sogno, fermare il surriscaldamento globale. E poi dormire". E alla fine ha cancellato anche "e poi dormire". Si cresce, si matura, queste sono cose del tutto normali e innocue. Però bisogna continuare ad andare avanti, non indietro.
Per rispondere alla solita domanda, faccio così. E mi sento ogni giorno un po' più ricca.

sabato 11 gennaio 2020

una settimana più texana delle altre

E' venerdi pomeriggio. 
Mi siedo un attimo a tirare il fiato e a riflettere sulla surreale settimana che ho avuto.
Faccio quasi fatica a credere a tutto quello che è successo.
Lunedi, primo giorno lavorativo del 2020: corso di sopravvivenza in caso di mass shooting con analisi dei vari incidenti del passato e testimonianze dei superstiti (qui). Se aggiungete al fatto che oltre a essere un'insegnante e in quanto tale responsabile di tutti i miei studenti, ho anche due bambini miei nello stesso edificio, potete forse vagamente immaginare la mia angoscia alla fine di quella giornata. 
Il giorno successivo mi si spezza nuovamente il cuore quando una bimba nera di sei anni mi chiede se quel tale bambino di cui parlavamo, quello che si è messo nei guai, era bianco o nero (qui).
Mercoledi ho fatto una lezione su Martin Luther King con una delle classi più disciplinate e serie (e bianche, non l'avevo mai notato prima) che ho.
Fra poco sarà Martin Luther King Day e sto facendo molte lezioni sull'argomento.
C'è stato un piccolissimo gruppo di ragazzi che si è comportato molto male in quella classe. Uno si è preso la briga di disegnare un ritratto di MLK per mezz'ora e poi gli ha aggiunto corna, zanne e artigli per farlo sembrare il diavolo.
Avevamo appena detto che è stato ucciso a 39 anni, che sarà più o meno l'età dei loro genitori, e che aveva quattro bambini. Dov'è l'empatia? Come si spiega una reazione simile? 
Il giorno dopo con lo stomaco ancora chiuso dalla delusione e dalla tristezza sono andata a parlare con la persona deputata in teoria a gestire questo tipo di situazioni. Mi ha consigliato di non dire niente e non tirare più fuori l'argomento. Vi lascio indovinare il colore della sua pelle. Fortunatamente ho poi trovato pieno appoggio in tutti gli altri insegnanti coinvolti e ora ognuno farà la sua parte per capire e correggere.
Il giorno successivo ho fatto una lezione su Keith Haring. Abbiamo letto un libro che raccontava fra le altre cose, quanto fosse buono e quanto avesse aiutato tante persone e soprattutto i bambini malati. La classe era rapita sia dalla storia del bambino che non faceva altro che disegnare sia dalle opere stesse con quei colori brillanti, il contorno deciso dei cartoni animati... finchè è arrivata la domanda fatidica.
- Era sposato?
- No, era gay.
Ho visto qualcuno sghignazzare sotto i baffi, ma ho lasciato cadere, mi sembrava più giusto non dare peso alla cosa in quel momento e fare passare con naturalezza il messaggio che non ci fosse nulla da discutere così come se avessi risposto che era sposato. Dopo un po' passando fra i banchi noto che una bambina ha disegnato Keith Haring (c'era scritto) dentro a un tornado con un fumetto che diceva qualcosa tipo "Muoioooo". E' vero che il compito era più o meno libero, ma doveva avere un senso rispetto a tutto quello di cui avevamo parlato. Quando le ho chiesto spiegazioni, mi ha risposto fra le risate che è stata felice quando ho detto che è morto giovane. Perchè? Le ho chiesto. "E' per la mia religione". Vi lascio indovinare quale religione sia. 
Ma non finisce qui. Successivamente ho accennato l'accaduto alla sua maestra. La collega non ha nulla (credo, suppongo) contro gli omosessuali, ma la sua spiegazione è stata squisitamente teologica. In sostanza il suo ragionamento è: siccome siamo tutti peccatori e siccome tutti i peccati si equivalgono agli occhi di Dio, siamo tutti uguali e "abbiamo tutti bisogno di Gesú". Poi l'ho vista parlare con la bambina. Ho visto la bambina scoppiare a piangere ed è finita così la lezione.
Ero allibita. Io penso che le motivazioni che un insegnante debba usare per convincere i propri studenti a non commettere discriminazioni debbano essere di tipo intellettuale e non basate sulla fede religiosa. Lo davo per scontato in una scuola pubblica e invece. 
E così, finalmente devo dire, oggi è venerdi. Nel mio cassetto, in classe, ora ci sono due kit per il pronto soccorso: uno con i cerotti e la scatolina per mettere i dentini quando cadono e l'altra per fermare i dissanguamenti. Non mi ci abituerò mai.

Avrete notato che non è più venerdi, ma sabato.
Dulcis in fundo, ho dovuto interrompere la scrittura di questo post perchè ieri sera è suonata la sirena dei tornado e siamo dovuti tutti correre in bagno, che è la stanza più sicura della casa.
Woody non si è fatto sfuggire l'occasione: "Mamma per favore non morire. Sarei molto preoccupato per te se morissi".
Scampato pericolo, era solo una tempesta. Partitella a carte in bagno e via, un venerdi sera come un altro per fortuna. 
Stamattina mi sono svegliata con Joe che si vestiva velocissimo saltellando di gioia come un grillo impazzito: "Sta nevicando! Sta nevicando!". E in effetti stava proprio nevicando. 
Sono passate quattro ore e c'è un sole che spacca le pietre. Domani dovremmo essere sui 15 gradi.
E niente. Andiamo avanti così, senza annoiarci mai.

mercoledì 8 gennaio 2020

privilegi

Ieri un mio studente, un bambino di sei anni, ha rotto un tavolo. Proprio rotto rotto. Non sono cose che succedono tutti i giorni, abbiamo tavoli abbastanza robusti. Quindi adesso c'è un tavolo ribaltato senza una gamba che sembra una sorta di scivolo in mezzo alla mia classe e funziona un po' come una calamita, solo che invece del ferro attrae i bambini.
Visto che come tutti sanno è inutile ignorare l'elefante... cioè il tavolo rotto nella stanza, ho messo subito le cose in chiaro con le classi che sono arrivate dopo. Sì, c'è questo oggetto misterioso, qualcuno è finito in presidenza piangendo, non fate come quel qualcuno.

Risposta di una bimba afroamericana:
- È stato un bambino bianco o nero?
Mi è venuto solo da dire: non ha nessuna importanza. Però il fatto che me lo abbia chiesto, lascia un certo amaro in bocca.
Numerosi studi mostrano come perfino a scuola i bambini neri tendano a essere puniti più di quelli bianchi. Le bambine di colore poi tendono sempre a essere percepite come meno innocenti e più anziane della loro età reale.
Posso immaginare che queste siano cose di cui si parli a casa di quella bambina. I genitori l'avranno messa in guardia oppure avranno avuto qualche brutta esperienza.
Come sempre, a un bambino bianco (così come a un'insegnante bianca) una domanda del genere non sarebbe mai venuta in mente.
Se ci pensate, è questa l'ingiustizia vera, che una parte della società debba preoccuparsi fin dall'infanzia di queste problematiche, che una bambina di sei anni sotto sotto possa avere il dubbio di essere punita per il suo aspetto fisico e non per il suo comportamento.
Immaginate come piccoli episodi come questo che succedono ogni giorno, possano poi condizionare la crescita di una persona.

lunedì 6 gennaio 2020

il mio primo giorno di lavoro del 2020

Oggi a scuola abbiamo fatto il corso di pronto soccorso. Di solito qui gli insegnanti lo fanno un anno sì e uno no. L'ho fatto tante di quelle volte che non pensavo ci fossero delle sorprese e invece.
Questa volta oltre alle solite cose ci hanno insegnato come intervenire sulle ferite di arma da fuoco. Cose tipo esercitarsi a inserire garze kilometriche nelle ferite o fare smettere di sanguinare uno che ha perso la mano. Poi sono andati via quelli del pronto soccorso ed è arrivato un agente federale che era esattamente come uno può immaginarsi un agente federale americano. Una sorta di incrocio fra Brad Pitt e Bradley Cooper con una voce di quelle che ti fanno scattare sull'attenti, ma che allo stesso tempo ti danno sicurezza anche di fronte all'impensabile. E lui ha fatto una lunga presentazione, sulle dinamiche più comuni che si innescano quando in un luogo pubblico arriva un "active shooter".
E niente. Sono arrivata a casa, ho preso la bici di corsa prima che andasse giù il sole e sono arrivata qui nel mio posticino a cercare di capire se c'è un modo per dimenticare tutto quello che ho sentito oggi e allo stesso tempo per ricordarlo in ogni dettaglio in caso dovesse tornare utile.
E questo è stato il mio primo giorno di lavoro del 2020.
Decisamente
#noncelasifa

giovedì 2 gennaio 2020

piccole scoperte di questi giorni

In questi giorni di vacanza, ho fatto tutto tutto quello che mi piace (cose tipo dormire, disegnare o passeggiare senza meta). Viaggiando molto (foto qui), non ho avuto tempo per leggere, ma ho scovato alcune cose che potrebbero interessare a qualcuno di voi. Dopo tutto se siete arrivati fino a questo piccolissimo blog, è perchè abbiamo gusti simili.
(Tutto in inglese, vi avverto)
Mi sono imbattuta in alcuni podcast che sono legati al tema che mi affascina sempre molto dei cosiddetti "buoni propositi" dell'inizio dell'anno.
- Il primo è un episodio di Code Switch, un podcast che ho trovato spesso illuminante. Si occupa dei temi più disparati, ma dal punto di vista della diversità e dell'identità. In questo caso -l'episodio si intitola Beautiful Lies - il tema è la bellezza. All'inizio dell'anno tutti cercano di fare dei cambiamenti per risultare più attraenti, ma da dove vengono le norme di bellezza a cui cerchiamo di conformarci? Si parla, ad esempio, di come è cambiato il concetto di bellezza coreano dopo l'introduzione della chirurgia plastica che 'occidentalizza' la forma degli occhi. Si parla dello stereotipo femminile quasi irraggiungibile delle Latinas da cui ci si aspetta che siano magrissime, ma allo stesso tempo formose come Sofia Vergara o Jennifer Lopez. Le famiglie insistono per farle mangiare, ma poi le bombardano di commenti sul peso e i disturbi alimentari aumentano a vista d'occhio (a un certo punto pensavo parlassero della Puglia). Si scivola così dentro al tema del rapporto fra bellezza e povertà e bellezza e potere.
- Poi c'è un episodio di Hidden Brain, un podcast di psicologia, che mi è piaciuto molto. Si intitola Creatures of Habit: How Habits Shape Who We Are - And Who We Become e spiega come si formano le abitudini.
Ho trovato anche il tempo per guardare (anzi binge-guardare fino alle 2 di notte) due serie belle belle, che parlano di donne:
- Mrs. Fletcher (HBO) che racconta la vita di una madre dopo che l'unico figlio esce di casa per andare all'università.
- Shrill (Hulu) che racconta la vita di una ragazza intelligente, acuta, brillante e...grassa.
Aggiungo alla lista (mi sembra di essere Obama...) anche il primo episodio di The Art of Design Season 2 su Netflix, con Olafur Eliasson che parla del suo lavoro (qui il trailer). Arte e ambientalismo. L'ho guardato ben due volte. Oro.
Ultimamente la politica, cerco di evitarla, ma questo podcast di Vox che spiega tutto quello che Trump ha realizzato finora come presidente, mi è piaciuto moltissimo e mi ha dato da riflettere.
Ci sono ancora tre giorni e mezzo di vacanza, scappo!