domenica 28 agosto 2022

o anneghi o impari a stare a galla

Durante il colloquio si era parlato, fra le altre cose, di giustizia sociale e di come si possa arrivare a buoni risultati accademici tenendo conto dei gravi traumi di cui molti bambini poveri purtroppo fanno esperienza fin dalla più tenera età.

Per me quel colloquio è stato un punto di svolta. Per un anno intero ero stata testimone di un sistema scolastico fondato sull'ingiustizia. Cercavo esattamente un'opportunità di quel tipo. Volevo lavorare in un ambiente dove si parla apertamente di questi temi, dove ci si assumono le proprie responsabilità e ci si impegna al massimo. 

Quello che sapevo quando ho accettato il lavoro è che la scuola - che fra l'altro è nuovissima, e a mio parere anche bellissima- si trova in una zona problematica e che la stragrande maggioranza degli studenti vive in una condizione di povertà. Quando ho iniziato però, mi sono accorta che c'era di più, molto di più. 

Frasi buttate lì durante le riunioni preliminari, frasi che mi mettevano i brividi. 

"Bisogna cambiare la divisa perchè il tale colore è lo stesso che viene utilizzato da una gang della zona ed è meglio evitare confusioni". 

"Se mentre entrate sentite degli spari, anche a distanza, avvisate sempre".

Cose così. Non so se mi inquietassero di più i fatti in sè o la normalità che certe affermazioni o certi aneddoti incontravano.

Dice, alcuni studenti, qualche decina, non hanno una casa. E tu che sei completamente fuori da quest'ordine di idee subito ti chiedi...ma come? 

Di solito vivono in qualche motel di quart'ordine, famiglie numerose in una stanza. Il problema è che molti anche se lavorano non hanno le credenziali o un modo di mettere insieme abbastanza denaro per l'acconto. Gli studenti senza casa, li porta a scuola un autobus speciale, mi hanno raccontato. Ma sento parlare di un ex studente che, ad esempio, non si poteva permettere nemmeno il motel di quart'ordine e così un giorno che l'aveva combinata grossa ha confessato di stare vivendo abusivamente in uno di quei garage che si affittano con la funzione di ripostiglio.

Come fa una famiglia a vivere dentro una scatola senza riscaldamento o aria condizionata, senza nemmeno un rubinetto o uno straccio di finestra? Chiaro che un ragazzino in quella situazione debba trovare un modo per farsi sentire con tutta la rabbia e il dolore che ha dentro.

C'é un'altra bambina che è da sola. Il papà è morto di aids e la mamma che è malata terminale ha pensato che avesse più possibilità di cavarsela qui negli Stati Uniti che con lei in Messico. Così l'ha affidata a una conoscente, insieme hanno passato il confine, non so come, e ora viene da noi. Sento storie di questo tipo tutti i giorni.

La sera dell'open house, quella in cui le famiglie vengono a conoscere gli insegnanti, mi si avvicina una mamma con una bambina piccola, ma non così tanto da non capire cosa stesse succedendo. Mi chiede in spagnolo dove distribuiscono i materiali scolastici gratis. Scopro in questo momento che vengono organizzati degli eventi in cui si regalano alle famiglie in difficoltà quaderni, matite e tutto il necessario per cominciare la scuola. Quegli eventi però si erano tenuti la settimana precedente. Inoltre lei usava una parola che non conoscevo. Il mio spagnolo oltre a essere leggermente arrugginito, è anche un po' diverso da quello che sento a scuola perchè l'ho imparato in Spagna. Nell'America del centro e del sud in ogni paese, si usano espressioni diverse che tante volte io non conosco. E così questa povera donna si è trovata non solo a farmi questa richiesta, ma anche a ripeterla più e più volte con evidente frustrazione finché è come esplosa in un "FREE! No habla español?". Ero mortificata, anzi è passato quasi un mese e sono ancora mortificata. Quando il malinteso si è chiarito, sono andata a informarmi e ho scoperto che non c'è nessun problema. Ognuno porta ciò che può e al resto provvede la scuola. Capivo che ovviamente il problema di quella mamma era un altro: non voleva mandare la bimba a scuola senza tutto il necessario. Allora l'ho portata nella mia classe e con la lista in mano ho cercato quello che potevo darle sul momento. Ho preso quella decisione per conto mio, ho fatto bene? Ho fatto male? Dovevo darle qualcosa in più già che c'ero? Ogni bambino dovrebbe avere delle matite e colori anche a casa, no?

Quando sono cominciate le lezioni, il gioco si è fatto duro sul serio. il primo giorno sono tornata a casa attonita, traumatizzata. Mi sono resa conto che sarebbe stato impossibile insegnare come sono abituata a insegnare in questa scuola. 

Abbiamo una classe di "nuovi arrivati". Ogni giorno mi si presentano almeno un paio di studenti di ogni età che mi raccontano che sono appena arrivati (dal Messico, ma anche dal Guatemala, dall'Honduras...) e non sanno una parola di inglese.

Non sono stata assunta come insegnante bilingue, il fatto che conoscessi lo spagnolo era un di più. Le classi in cui parlo inglese però sono pochissime, nel senso che se parlo in inglese non mi capiscono per niente. Ci sono delle classi in cui posso parlare inglese e altre in cui posso parlare spagnolo, ma ce ne sono anche tante altre in cui se voglio essere capita devo tradurre tutto. E' come essere catapultata in un paese straniero. Anche la  cultura è diversissima, un giorno ve ne parlerò. 

Il mio più grande problema quando sono arrivati gli studenti è stato l'imprevedibilità. Ogni volta che entra una classe non so cosa succederà, ancora non li conosco, non so che lingua capiscono, se sono aggressivi o sereni più o meno come tutti gli altri studenti delle scuole in cui ho insegnato perchè ci sono anche studenti così grazie al cielo. La prima settimana guardavo fuori dalla finestra e ogni giorno vedevo lunghissime file di genitori che ancora stavano iscrivendo i bambini di persona (nelle altre scuole non funziona così, ci si iscrive per tempo, online). Domani è probabile che torni a scuola e trovi vari studenti nuovi in ogni classe, ma non è detto che restino. Mi hanno spiegato che c'è un grande viavai in questo tipo di comunità. Raramente hai la consolazione di poter almeno seguire gli stessi bambini dal kindergarten alla prima media.

Come insegnante vieni in po' buttato dentro così. O anneghi o impari a stare a galla. Ci sono classi ancora scoperte. Gli insegnanti stanno arrivando dal Messico, ci vuole tempo per fare i documenti. E guarda caso sono le classi in cui ho visto i casi umani più tragici. Ogni giorno mettendo insieme gli indizi, scopro un pezzettino nuovo. Incredibilmente nessuno si è preso la briga di avvisarmi, ad esempio, che avrei avuto ben due classi di bambini con disabilità così gravi che da richiedere la presenza di vari insegnanti di sostegno. 

C'è uno di questi studenti che è fissato con i pastelli a cera, li mangia. Non sono tossici, ma non deve mangiarli, sono sporchissimi e avvolti nella carta. C'è una maestra che lo segue ovunque. Io nascondo i pastelli a cera, ma lui li trova lo stesso. L'altro giorno ne ha messo uno in bocca e non c'è stato verso di farglielo sputare. Lo abbiamo guardato impotenti masticare questo pastello verde per minuti interminabili. Ho avuto gli incubi.  

L'impatto di tutto questo sulla mia psiche inizialmente è stato catastrofico.

Il peggio è arrivato quando ho smesso di dormire. Ero perseguitata sia da quello che vedevo sia dall'ossessione di trovare soluzioni. Era come cercare di svuotare il mare con il secchiello. Non riuscivo a smettere di pensare mai, né di giorno né di notte.

Il secondo giorno di lavoro, mi sono chiusa in bagno a piangere. Non dico che non possa capitare di piangere sul lavoro, ma era il secondo giorno, chiaramente qualcosa non stava andando per il verso giusto. Ho cominciato ad avere paura di non farcela ad arrivare alla fine dell'anno e poi della settimana. Era troppo. Non riuscivo a funzionare. A casa erano preoccupati, non c'ero e quando c'ero avevo la lacrima facile. Non riuscivo nè a parlare, nè a distrarmi in nessun modo. 

Il dolore. Il dolore che ho sentito in quei bambini mi ha travolto e contagiato. Anche se non era il mio dolore. Anche se io la sera torno nella mia bella casa con tutto il cibo che voglio e una famiglia che mi aiuta e si fa in quattro per me. Quindi avevo anche il senso di colpa. Quel dolore non riguarda me, io non posso lamentarmi di nulla se non della mia incapacità di fare di più, eppure soffro.

Quando ho visto che le cose non accennavamo a migliorare, ho chiesto supporto a scuola. Sono stata convocata in amministrazione, una riunione ufficiale. Mi sembrava all'inizio di essere stata "mandata dal preside". Il mio unico obiettivo era rimanere professionale e non piangere davanti a quella persona. Beh, dopo un'ora che parlavamo a piangere era lei non io.

È venuto fuori che quello che sto provando è perfettamente normale. Chissà forse è per questo che l'anno scorso quasi metà corpo docente se n'è andato. Chissà forse è per questo che non riescono ad assumere uno psicologo mentre dovremmo averne almeno due. 

Prima di entrare in quell'ufficio mi aspettavo di essere in qualche modo rimbrottata per i miei metodi che sono sempre stati considerati troppo soft a livello disciplinare. Assolutamente no, nessuna critica. È che non si parla nemmeno di disciplina in termini "normali". Se hai degli studenti che a volte non sono mai stati in una scuola, che sono appena arrivati da un altro paese, che magari sono in terza elementare e hanno problemi a usare anche solo il bagno, c'è poco da fare: è dura. Ci sono studenti così traumatizzati che hanno comportamenti ingestibili da una persona sola. E allora si lavora insieme, si parla, si tirano fuori soluzioni da provare, strategie, ci si fa coraggio a vicenda senza accusarsi. 

Quella riunione, insieme a varie chiacchierate con altri colleghi, è stato un altro punto di svolta. 

Ho capito non solo di essere circondata da persone per tanti versi simili a me, ma anche di essere sulla strada giusta. Ho capito che la situazione è difficile di per sé, non sono io a complicarla. Sembrerà strano, ma fino a quel momento non lo sapevo. Mi si è come accesa la luce, come se qualcuno avesse premuto l'interruttore. Sono tornata a casa, ho guardato un film e ho dormito serena per tutta la notte. 

Tutti i colleghi che lavorano lì da vari anni a cui ho esposto i miei dubbi ho visto che si commuovono ancora quanto mi commuovo io pensando a determinati studenti. Ragionando con loro ho capito però che esiste anche una strada per continuare a fare questo lavoro con gioia ed entusiasmo. Quella strada non fa per tutti. Passa dalle lacrime e dalle notti in bianco iniziali, pare che sì, fanno parte del pacchetto. A volte bisogna semplicemente passarci, attraversare il dolore e arrivare da un'altra parte, arrivare a una nuova consapevolezza. 

La consapevolezza nel mio caso è questa: io posso cambiare solo un'ora alla settimana nella vita dei miei studenti, è così. Se mi carico tutto il peso dei loro guai sulle spalle, cado e se cado gli tolgo anche quell'unica ora di serenità.

Quando ho fatto mia questa semplice verità, è cambiato tutto. Sto cominciando anche a divertirmi di nuovo. Il mio lavoro è divertente, sorprendente, interessante, lo stavo quasi per dimenticare. Le giornate volano. A me non viene detto quali siano i bambini senza casa o senza genitori o con chissà quali problemi. Non lo voglio nemmeno sapere. Voglio creare per tutti noi un luogo e un momento di pace in cui essere bambini, in cui usare l'immaginazione, in cui chiudere tutti i problemi fuori dalla porta. E se qualche problema si intrufola non è la fine del mondo, è già successo. Ne parliamo, tutto si affronta, tutto si può non risolvere ma migliorare usando la testa e la calma.

Non so quanto riuscirò a mantenere questo equilibrio e non so se questo è il lavoro della mia vita, ma per adesso sono qui e ne sono felice. Quello che sto facendo mi sta dando una soddisfazione e una gioia profonde che mi ripagano di tutto.

Un collega che mi aveva visto demoralizzata, mi ha lasciato un cookie sul computer l'altra mattina. Sul biglietto ha scritto "resisti, sei qui per un motivo". Forse è proprio così.

2 commenti:

Bulut/Nuvola ha detto...

Mi ha colpito questa tua frase:

La consapevolezza nel mio caso è questa: io posso cambiare solo un'ora alla settimana nella vita dei miei studenti, è così. Se mi carico tutto il peso dei loro guai sulle spalle, cado e se cado gli tolgo anche quell'unica ora di serenità.

Assolutamente vero.

Dai, secondo me ce la fai, anche se è molto difficile... ma, appunto, sei lì per un motivo.

Un abbraccio e bravissima, bravi a tutti voi che lavorate lì.

Anonimo ha detto...

Ciao,mi hai ricordato il periodo in cui ho lavorato in Malattie Infettive, alla fine degli anni '90 (sono infermiera)
Al tempo l'AIDS dominava e il reparto era pieno di persone con storie tragichee dolorose che inevitabilmente portavano alla morte; per contro il personale che lavorava lì (medici ed infermieri) era il più preparato, compassionevole, motivato ed empatico che io avessi mai visto: persone incredibili che veramente avevano fatto dell'aiuto al prossimo una missione, non in senso religioso ma in senso UMANO.
Io ho resistito un anno, l'empatia richiesta era superiore alle mie forze e il pericolo che potessi portare qualcosa a casa ai miei tre figli era troppo
ciao

Betty