sabato 9 marzo 2019

me lo fai un sorriso?

Crescendo, il femminismo non è mai stato in cima alle mie preoccupazioni, non mi sono mai sentita oppressa come donna. Mia madre era casalinga e mio padre ci ha sempre inculcato che il lavoro della casalinga era un lavoro e basta, come tutti gli altri. Nella nostra famiglia per una serie di motivi logistici, funzionava meglio così, punto. Infatti, ho sempre sentito da parte di mio padre grande apprezzamento per quello che mia madre faceva per noi e lei, dal canto suo, mi sembrava soddisfatta e intraprendente, risolveva tutto da sola. A noi figlie, due femmine, era richiesto solo di scegliere in completa autonomia che cosa ci interessasse e studiarlo. Solo questo, non doveva nemmeno essere qualcosa di sensato in vista di un lavoro, tanto è vero che è finita che con estrema furbizia abbiamo studiato arte tutte e due. Dovevamo solo impegnarci. Lo studio prima di tutto, era il mantra a casa nostra.
Mi rendevo conto dell'eccezionalità di tutto questo solo quando andavamo in vacanza nel paesino dei miei, al sud. Negli anni Ottanta e parte dei Novanta, era un posto sperduto, oggi forse fin troppo sfruttato a livello turistico. In tutto il paese o almeno la zona a ridosso del litorale, all'epoca c'erano sì e no cinque o sei cabine telefoniche. Facevi file interminabili per chiamare e poi quando arrivava il tuo turno, avevi il fiato di quello dietro sul collo. Noi, per scelta di mio padre che ci raggiungeva solo per un paio di settimane ad agosto e che ripeteva sempre che in vacanza dovevamo disintossicarci, non avevamo nemmeno la televisione: vivevamo completamente fuori dal mondo per un mese e mezzo o due. Non c'era una libreria e nemmeno una biblioteca. Fortunatamente c'erano due edicole. Erano ai lati opposti del paesino per non farsi concorrenza, però era strano: il giornale, inteso come quotidiano, era considerato una lettura maschile. I maschi stavano al bar e leggevano il giornale. Al bar le donne non dovevano mai entrare da sole. Non sta bene, mi dicevano le mie cugine. C'erano un sacco di regole che noi forestiere da un lato prendevamo in giro, però dall'altro non potevamo mai ignorare del tutto. Se uscivo con un ragazzo, ad esempio, c'era sempre un qualche amico o parente che a un certo punto andava a dirgli di stare attento, se capite cosa intendo. Io morivo di vergogna, ma lì era vista come un'enorme dimostrazione d'affetto. Le ragazze, se non erano delle poco di buono, erano delle creature indifese che dovevano essere protette da uomini forti e leali. Le ragazze camminavano in piccoli gruppi avanti e indietro sul lungomare e i ragazzi le 'insultavano', usavano proprio questa parola tradotta dal dialetto, ma essere insultate era una cosa positiva in quel caso, significava che piacevi. Piú piacevi e più ti insultavano, ma si può? E allora erano sguardi troppo insistenti, complimenti non richiesti, battutacce e nel mio caso sempre una domanda ma perchè sei così seria? Me lo fai un sorriso? La maggior parte dei ragazzi erano incomprensibili ai miei occhi. Invece di parlarti, facevano cose strane come imbrattare un muro con una dichiarazione d'amore o passare duecento volte al giorno con il motorino davanti a casa tua senza mai fermarsi. Se mi succedesse oggi avrei molta paura, ma in quel contesto, era nell'ordine delle cose, era una sorta di romanticismo locale che seguiva regole precise, ataviche. Un romanticismo fatto di grandi gesti plateali che a volte funzionavano anche. Dipendeva dal gesto e dipendeva soprattutto da chi lo faceva.
Era un mondo così, fatto di uomini che prendevano in mano la situazione e codici comportamentali che si tramandavano più o meno immutati di generazione in generazione senza che apparentemente mai nessuno si fermasse a chiedersi che senso avessero. Era un gioco delle parti a cui era difficile sottrarsi. Conosco molti che lo hanno fatto, ma gli è toccato andar via.
C'era una ragazza che girava sempre da sola, mi sembrava una selvaggia con i capelli ricci ricci bruciati dal sole, è un ricordo lontanissimo. Mi dicevano di lasciarla perdere perchè era stata violentata. Ricordo il suo sguardo cattivo. Ero molto piccola, ma percepivo la gravità, il tabú, e non facevo domande. Del resto il succo del discorso era chiaro: era stata colpa sua e andava lasciata cuocere nel suo brodo. Sarà contagiosa? Mi chiedevo. In un certo senso sì. Se giravi con qualcuno che aveva una reputazione brutta come la sua, finivi male anche tu. La reputazione era tutto laggiù a quei tempi.   
Quando andavo lì, era facile per me notare tutte queste disparità di trattamento fra uomini e donne.
A Milano invece era tutto molto più complicato. Apparentemente le cose andavano meglio, ma ci sono dei fatti di cui ho cominciato a capire la gravità solo molti anni dopo.
C'era un professore che adoravo al liceo, anzi che tutti adoravano. Lo ricordo con grandissimo affetto, mi ha insegnato un sacco di cose fondamentali, eppure lui ti squadrava. A pensarci adesso, mi vengono un po' i brividi. Un cinquantenne che mangia con gli occhi le sue studentesse adolescenti, tante volte ancora minorenni, e fa battute a doppio senso, ammicca. Noi sapevamo perfettamente che se volevamo essere interrogate, dovevamo metterci una gonna o una camicia scollata. Ci scherzavamo, pensavamo di essere furbe forse. A pensarci adesso...era tutto tremendamente sbagliato.
Crescere con l'idea che un atteggiamento del genere da parte di un adulto in una posizione di autorità e di potere sia accettabile, ha conseguenze serie e durature nella mente non solo delle studentesse in quella situazione, ma anche dei compagni maschi che magari hanno dedotto che fosse giusto e hanno ripetuto la stessa dinamica appena hanno potuto. Un insegnante non insegna solo la sua materia, è un modello di comportamento.
Ai colloqui di lavoro dopo la laurea, a Milano, capitava che mi chiedessero se fossi fidanzata e che piani avessi. Una volta mi chiesero addirittura che lavoro facevano i miei, avrò avuto 25 anni. Per un periodo molto breve, ho lavorato in una famosa galleria d'arte milanese dove avevo un solo collega. Lui poteva vestirsi come gli pareva, io invece avevo il vincolo di vestire solo di bianco o di nero. Una mattina indossai una collana blu e il gallerista diede di matto. Me la fece togliere davanti a tutti, non dimenticherò mai l'umiliazione. 
Qui in Texas, oggi, per quello che ho potuto vedere in questi anni, siamo a un livello quasi impalpabile di maschilismo. Le donne sono piuttosto temute nell'era del #metoo. Al corso di pronto soccorso, una volta, c'era un insegnante terrorizzato all'idea di fare un massaggio cardiaco o una respirazione bocca a bocca a una ragazzina: aveva paura di essere denunciato per molestie sessuali. Le discriminazioni sono così subdole e difficili da dimostrare di solito che a volte ti chiedi se te lo sei sognato. Mi ha chiesto davvero di preparare il caffè durante la riunione? Ha alluso davvero allo stipendio di mio marito mentre discutevamo il mio aumento? Poi ti confronti con altre donne e ti si chiarisce subito tutto. Ecco, la chiave è tutta qui per me, nel confronto delle esperienze reciproche perchè ci sono dei comportamenti talmente radicati e accettati che non riesci a inquadrarli finchè non ne parli con qualcuno. Il primo passo per noi donne è proprio questo, fare il punto sui torti subiti in passato e avere le idee molto chiare su come vogliamo essere trattate in futuro.
C'è tanto lavoro da fare da parte di tutti. 

2 commenti:

Anonimo ha detto...

personalmente preferirei che anche in italia ci fosse il terrore di essere denunciati sul posto di lavoro per molestie, invece di trovarmi il collega che continua a farmi battute molto pesanti e che la settimana scorsa è arrivato a palparmi il seno. io l'ho segnalato alle risorse umane, eppure in me è talmente radicata l'idea che siamo semrpe noi donne a meritarci le cose, che ho dovuto farmi violenza per farlo

nonsisamai ha detto...

Che brutta situazione. Non è molto, ma hai tutta la mia solidarietà.