giovedì 13 aprile 2017

come non far diventare tuo figlio razzista per sbaglio

Qualche giorno fa ho ascoltato un podcast che parlava di come non far diventare tuo figlio razzista per sbaglio, interessantissimo. A introdurre l'argomento era una danese sposata con un uomo di colore, che trasferitasi qui negli Stati Uniti, come me ha cominciato a notare diverse stranezze. Prima di tutto che gli americani raramente nominano schiavi e diritti civili e se lo fanno e' un po' come se parlassero dei greci o dei romani, di storie vecchie e superate e tu che vieni dall'Europa rimani basito: ma come? Era l'altro ieri. Esistono ancora persone che ricordano perfettamente la vita sotto le leggi Jim Crow (le leggi razziali abolite nel 1965), ogni giorno vengono commessi crimini a sfondo razziale di qualunque tipo, dagli omicidi compiuti dalla polizia al pazzo che due anni fa e' entrato in una chiesa di Charleston in South Carolina e ha fatto fuori nove persone semplicemente perche' non gli piaceva il colore della loro pelle. E poi tutte quelle piccole discriminazioni della vita quotidiana. I bambini neri che vengono sospesi piu' di quelli bianchi, i mutui che non vengono accesi, i curricula che vengono cestinati se presentano un nome afroamericano (qui era dove spiegavo questo fatto dei nomi inventati), il razzismo c'e' e se si ha un minimo di umanita', indipendentemente dal proprio colore, lo si sente credo.
Insomma, questa esperta sosteneva che bisogna assolutamente che si parli di questi temi in famiglia a partire dai tre-quattro anni e questo non mi ha sorpreso. Quello che mi ha sorpreso e allarmato e' invece il fatto che spiegava che diversi studi hanno dimostrato che se non si parla di questi temi, o anche se se ne parla poco e in modo vago come fa la maggior parte dei genitori, c'e' un'alta probabilita' che i nostri figli prendano questo atteggiamento come una sorta di opinione in se': non parliamo di loro perche' sono diversi, non ci interessano. E cosi' sono piu' inclini a bersi le schifezze che vanno tanto in voga ultimamente e che sentono tutti i santi giorni per bocca del presidente in persona (che adesso stanno addirittura pensando di incriminare per incitazione alla violenza) e dei suoi soci (proprio ieri il suo portavoce ha negato che Hitler abbia mai usato armi chimiche 'contro la sua stessa gente'). 
Non e' possibile svicolare, a quanto pare bisogna parlare e parlare tanto. Tirare fuori l'argomento anche di proposito (difficilissimo, ci penso da una settimana e non l'ho ancora fatto...) e entrare nei dettagli perfino delle sfumature dei colori della pelle. 

Noi adulti diciamo bianchi e neri, ad esempio, ma un bambino giustamente ti fa subito notare che in giro ci sono piu' che altro tante tonalita' di marrone e rosa. Come la mettiamo?

Ho parlato di tutto questo con Mr. J, ma lui non drammatizza. Abbiamo affrontato il tema del razzismo con Joe quando se ne e' presentata l'occasione, raramente direi, ma lui non pensa che stiamo sbagliando. Mi ha detto: 
- Figurati! Uno dei suoi migliori amichetti ha la pelle scura, gioca con tutti, sta gia' capendo come funzionano le cose, non preoccuparti. 
Secondo il podcast (che gli ho subito chiesto di ascoltare), lui starebbe cadendo esattamente nell'errore piu' comune che si fa in questi casi, quello di evitare l'argomento. 
Veniva spiegato, infatti, che soprattutto per gli americani bianchi, a causa della storia recente del paese, a prescindere dalle opinioni in merito, generalmente e' imbarazzante parlare del colore della pelle degli altri. Sono cresciuti con quest'idea ed e' difficile estirparla, quindi e' un circolo vizioso. 
E poi c'e' un altro fatto. Va bene, Joe ha tanti amici di tutti i colori a scuola, ma noi? 
La verita' e' che abbiamo ottimi amici afroamericani, ma vivono lontano. Abbiamo amici latinos o di altre minoranze qui, ma pochissimi conoscenti di colore e nessuno cosi' in confidenza da averci mai invitato o venire a casa nostra. Viviamo e lavoriamo in ambienti quasi interamente bianchi. Anche questo agli occhi di un bambino significhera' qualcosa, no? In fondo contano i fatti. 

I libri che studiavo quando pensavamo di adottare un bambino nero (sapevamo il colore perche' ci eravamo trovati nella stramba situazione di sceglierlo dato che erano quelli che avevano piu' difficolta' a trovare una famiglia) dicevano fondamentalmente la stessa cosa, che la famiglia adottiva deve impegnarsi per crescere il bambino circondato da modelli positivi del suo stesso colore e ci si riferiva non solo ad amici, ma perfino a medici e insegnanti se possibile per non creare false impressioni di preferenze e supportare un concetto concreto di uguaglianza.

Eppure riflettevo sui miei dieci anni qui. Le persone di colore che ho avuto la possibilita' di conoscere sono state (le poche in realta') mamme che ho incontrato al parco o all'asilo. Ci ho provato a essere amichevole quando e' capitato, ma nulla, non sono mai scattate affinita' particolari, non e' che posso dire a un essere umano vieni a casa mia cosi' mio figlio non diventa razzista per sbaglio. 

Prima guardavo un programma in cui parlavano del cosiddetto barber shop, la bottega del barbiere e mi e' venuta in mente quella volta in cui ci ho portato Joe (qui il post). Non ricordo bene come ando'. Avevo una mezz'ora di tempo, vidi un barbiere, Joe aveva bisogno di un taglio di capelli e mi sembro' logico andarci. 
Io non lo sapevo all'epoca, ma il barber shop e' un luogo chiave per gli afroamericani. Loro si ritrovano li' e parlano, si esprimono liberamente, sono a loro agio. 

Appena entrai sentii di essere in un posto che non mi apparteneva. Ero l'unica donna e l'unica bianca, ma piu' di tutto, mi colpi' il fatto che il barbiere taglio' i capelli a Joe con una cura infinita, ci mise cosi' tanto tempo che lui si addormento' con la testa fra le sue mani, ma non gli disse una parola e non gli sorrise se non forse un attimo alla fine. Quando Mr. J venne a prenderci fu ancora peggio, in un secondo nel negozio calo' il silenzio, facce lunghe, tensione. Chissa' -mi chiedo adesso- forse pensarono che fosse un poliziotto, del resto era completamente fuori luogo li' dentro. 
Solo una persona come me che non conosce certe regole del posto, avrebbe potuto andare al barber shop con tale nonchalance. Un texano bianco, ho imparato dopo grazie a questa esperienza, non lo fa, e' vista come una mancanza di rispetto, credo, un'invasione di campo, un autoinvito. Una di quelle cose che proprio no. 
Mr. J, trovandosi suo malgrado in quella bizzarra situazione, cerco' di essere piu' gentile possibile, provo' a fare due chiacchiere e si fece anche tagliare i capelli, ma quella sensazione di disapprovazione immotivata mi e' rimasta sempre addosso come una delle piu' spiacevoli di cui abbia mai fatto esperienza. 

Essere trattati diversamente e non sentirsi accettati senza un motivo personale, ma per un qualcosa che va al di la' della tua singola persona e che fa parte della storia, antica o recente che sia, e' questo che ho provato quel giorno. Scommetto qualunque cosa che se avessimo parlato, se ci fossimo conosciuti anche in quel barber shop, si sarebbe subito rotto il ghiaccio, ma non credo che me ne sia stata data l'occasione. 
E' per questo che mi preoccupo tanto: questo sistema di cose non ha senso e non mi importa se tanti pensano che esageri o non vedano il problema (c'e' perfino un'espressione per questo atteggiamento in americano, color blindness), io mi sento responsabile

Voglio impegnarmi al massimo affinche' i miei figli facciano la loro parte per condurre questa societa' a essere un luogo migliore e piu' equo per tutti in futuro. 

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Io vivo negli USA da appena tre anni e mezzo, un giorno al parco ho incontrato questa mamma african-american e ho scoperto di avere più cose in comune con lei che con certi italiani che vivono qui. Io non so spiegare quanto ho lavorato su questa relazione. Ho desiderato così tanto la sua amicizia che se ci penso ora, che ci sentiamo quasi tutti i giorni, mi sento ridicola. Sembravo una ragazzina delle medie che aspira all'amicizia della leader della scuola. Lei stessa mi ha raccontato che i suoi familiari/amici non capiscono e non approvano la nostra amicizia. Ma il fatto è che è una delle persone a cui sono più legata qui. Quando abbiamo iniziato a programmare le uscite con i bambini, ecc, le ho detto semplicemente la verità. Non so quasi nulla della tua/vostra storia e cultura. Aiutami a capire. Aiutami e perdonami se a volte ti sembrerò maleducata inopportuna. È solo che sono colpevolmente ignorante. E lei mi ha aperto il suo cuore.
Scusami per la lungaggine. I tuoi post invitano sempre alla riflessione, soprattutto su se stessi. Grazie.
Elena

nonsisamai ha detto...

Elena, questo è meraviglioso, sono così contenta che siate riuscite a stabilire questo rapporto così intimo a dispetto di tutto. Certo, mi stupisce che i suoi si oppongano apertamente, è strano. Sarebbe bello un giorno capire meglio. È vero che il razzismo verso i bianchi esiste, ma non l'ho mai visto manifestarsi in modo così plateale.

Anonimo ha detto...

Purtroppo il razzismo c'è, e si vede.Le coppie miste sono rare (credo, nei film americani i protagonisti sono in geere o tutti bianchi o tutti neri), segno che comunque le comunità sono piuttosto "separate".
Il fenomeno comunque è tutto particolare, noi europei non possiamo concepirlo perchè qui, nelle nostre nazioni, gli "stranieri" sono comunque ancora una minoranza.E comunque, ci sono lo stesso differenze, società separate , gruppi etnixi e religiosi che vivono per conto loro, con abitudini diverse.
simona